Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
«Terapie intensive, siamo stati lungimiranti»
Navalesi: “Ad oggi la situazione è gestibile”
PADOVA Vive l’emergenza coronavirus in prima linea. Da quattro settimane non vede la sua famiglia ma resiste, come tutti i sanitari al lavoro da un mese giorno e notte, senza sosta. Il professor Paolo Navalesi, direttore dell’Istituto di Anestesia e Rianimazione in Azienda ospedaliera a Padova e della Scuola di specialità dell’Ateneo cittadino, tratta i pazienti più gravi.
Professore, qual è la situazione nelle Terapie intensive dell’ospedale centro di riferimento regionale?
«C’è ancora margine. Sia come posti letto, grazie a un’organizzazione lungimirante, sia come personale, potenziato dall’assunzione di altri medici e a breve anche di specializzandi del quinto anno, come prevede il decreto Calabria. Che in caso di bisogno ci consentirà di prenderne altri del quarto anno. Come direttore della Scuola di specialità posso dire che assegneremo a ognuno di loro un livello di autonomia, in modo che sappiano bene cosa possono fare».
Le Terapie intensive sono molto sotto pressione, perché devono ospitare anche i degenti ordinari.
«Sì, l’attività chirurgica programmata è sospesa ma dobbiamo garantire le urgenze. Finora le procedure adottate dalla Regione ci hanno permesso di gestire bene la situazione, anche nel collocamento dei pazienti tra Malattie infettive, Terapie sub-intensive e intensive, a seconda del quadro clinico».
Da cosa dipende il passaggio dagli altri due reparti alla Terapia intensiva?
«I parametri da valutare sono tre: la compromissione respiratoria, le alterazioni rivelate dalla radiografia al torace e la saturazione dell’ossigeno, che misuriamo con il saturimetro, dispositivo che si infila sul dito. Quando
la frequenza respiratoria si altera e compare la dispnea, cioè la difficoltà di respirare, si somministrano le terapie con ossigeno e altre, fino all’intubazione nei pazienti più gravi, che sono una piccola quota».
In effetti su 2923 veneti positivi al Covid-19, i ricoverati in area non critica sono 593 e i degenti in Terapia intensiva 177. Ma la curva sale, non sembra una «normale influenza» come l’avevano bollata all’inizio fior di esperti.
«Non è un’influenza, e guardi che mi ricordo bene anche la suina, altra epidemia da non sottovalutare. Ma questa infezione ha caratteristiche molto diverse, cambia il tipo di alterazioni polmonari. E’ un’emergenza totalmente nuova».
La difficoltà per i medici sta anche nel dover affrontare un virus che non si conosce e per contrastare il quale, a differenza dell’influenza stagionale, non ci sono farmaci specifici?
«E’ così. Sono in corso in tutto il mondo protocolli di ricerca per formulare nuovi farmaci, raccolte dati e studi per cercare di capirne di più. Ma il contenimento dell’infezione, e quindi il restare a casa, resta la misura più efficace».
Al punto che tanti medici, per non esporre a rischi le proprie famiglie, non tornano a casa da giorni.
«Io non vedo la mia famiglia, che sta a Milano, da quattro settimane. E’ un sacrificio anche per noi, ma va fatto».
Quando si guarisce?
«Quando il tampone diventa negativo. Per i pazienti più gravi la guarigione inizia con il miglioramento della funzione respiratoria, per chi è intubato con la respirazione autonoma, e con un ridimensionamento della compromissione polmonare evidenziata dalla radiografia al torace».
E quanto ci vuole?
«La media nazionale, per i malati più gravi che vediamo noi, è di 10-15 giorni».
Il primario C’è ancora margine, una buona gestione ci permette di aver posti letto liberi e personale. Per ora i casi più gravi non sono molti. Chi guarisce lo fa in 10-14 giorni