Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
MOLTO DA CAMBIARE
L’ho chiesto a chi l’ha vista davvero. E lui mi ha detto che «sì, somiglia proprio alla guerra». Anzi: lui, durante quella guerra, a scuola ci andava ogni giorno e scappava solo quando suonava l’allarme. Anche mio papà si è diplomato maestro, sotto la guerra. E’ una guerra allora, la più moderna anzi, perché di mezzo ci vanno solo i civili. E ci sono tanti morti e feriti. E c’è il coprifuoco. E si vive alla giornata, come le foglie di Ungaretti sugli alberi d’autunno. Ci ho messo molto a scrivere.
Eanche adesso non so se sia la cosa più giusta. «Scripta manent» e la paura di scrivere castronerie che rimarranno per sempre ce l’ho tutta. Anzi, partiamo da qui: siccome dopo ogni guerra c’è una amnistia, la chiedo subito, a guerra finita, per le tante castronerie che abbiamo detto e scritto. Tutti. Di qualcuno ho tenuto il ritaglio di giornale. Ma vale per tutti e nessuno dica «io l’avevo detto». Perché tutti abbiamo pensato ad esempio quello che si pensa all’inizio di tutte le guerre: sarà una passeggiata, durerà qualche giorno, sarà una guerra lampo, e così via. Il Duce aveva una sola paura: di entrare in guerra che era già finita. Ma non mi sono deciso a scrivere solo per chiedere un’amnistia. Scrivo anche perché in questa guerra abbiamo tutto il tempo che vogliamo per pensare, ragionare e riflettere. I centri commerciali sono chiusi, i campionati fermi, gli amici e nipoti lontani. Allora è giusto dire che gli eroi sono quelli che lavorano nella sanità. Ma non possiamo cavarcela con le medaglie, alla memoria. Quando penso, ragiono e rifletto che per la sanità, dopo tagli su tagli, spendiamo due volte e mezzo meno che per le pensioni; che già prima di questa guerra i medici non si trovavano più, che a salvarci è la sanità pubblica, mica quella privata: a me sembra che qualcosa da cambiare domani rispetto a ieri, ci sia. E poi: siamo tutti a casa, anche quelli che fanno il telelavoro. Ma agli operai chiediamo di andare fuori, di andare sui luoghi di lavoro, assieme ad altri: nelle fabbriche sennò chiude tutto, in giro per le strade con furgoni e camion, nei supermercati. Di loro, degli operai, non si parla quasi mai, in tempo di pace. Di quel lavoro si vorrebbe anzi fare a meno: tanti, infatti, non sono neanche italiani. E delle tante castronerie che sento, sento anche che bisogna far tornare il lavoro dalla Cina: e chi lo farà, a mille e rotti euro al mese, neanche tanto sicuri, in tutti gli orari del giorno e dell’anno?
Questi sono gli operai, oggi. Per domani, un pensiero sarà allora il caso di farlo. Per esempio: la fabbrica, dopo l’altra guerra, era un posto che prometteva qualcosa, prima della pensione. Di imparare qualcosa, di fare carriera e diventare qualcuno. Fosse così, tornerebbe ad interessare anche agli italiani. Finisco con un appello: quando sarà finita, oltre che essere contenti, vediamo di continuare a pensare, ragionare e riflettere. Non è che fosse lo sport preferito, prima di questa guerra. Che forse è arrivata anche per questo. Per esempio, vale la pena ricordare la frase attribuita ad un grande meteorologo secondo il quale «un battito d’ala di gabbiano potrebbe essere sufficiente ad alterare il corso del clima per sempre». E chi l’ha mai preso sul serio? Questa volta pare sia stato il volo di un pipistrello ed è venuto giù il mondo. Promesso: continuiamo a pensare, ragionare e riflettere.