Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Il nuovo Cecchinel e le sponde della letteratura
La nuova raccolta del poeta di Revine Lago Il tema dell’emigrazione verso gli Stati Uniti L’omaggio a Walt Whitman e Allen Ginsberg
Il potenziale salvifico della poesia, che «mette in salvo» dalla furia devastante del tempo- come scriveva Shakespeare, giunge, dopo lunga sedimentazione, a medicare l’antica ferita della emigrazione veneta nel recentissimo Da sponda a sponda di Luciano Cecchinel (edizione Arcipelago Itaca, pagine 92, euro 13). La vicenda familiare del poeta di Revine Lago (Treviso), che vide una parte della famiglia materna costretta a emigrare negli Stati Uniti, diventa nei versi di Cecchinel paradigma di quella generazione di Italiani – i veneti costretti dalla pellagra- spinti dalla necessità a traversare l’oceano nella speranza di una nuova vita. È storia comune a molti, di un secolo fa, eppure evidentemente già rimossa dalla memoria nazionale, se così forte appare la resistenza verso la nuova ondata di migrazione, ma Cecchinel con la sua poesia, etica, impavida, pervicacemente insegue la traccia segnata dagli avi, scavata nella fatica, nella disillusione, nel distacco. Quella traccia che generò nella poesia di Cecchinel un primo alto momento con un libro di versi concepiti proprio nel solco di un privatissimo pellegrinaggio nei luoghi di emigrazione familiare (Lungo la traccia, Einaudi 2005), oggi lo porta a riguardare luoghi, esperienze, incontri con uno sguardo amaro, quasi recriminatorio verso quel paese che illuse la generazione dei suoi nonni, e della madre poi tornata in Veneto, e forse il poeta stesso.
Nasce questo nuovo libro di versi, da un lavoro di collazione di una quarantina di testi, composti per lo più tra gli anni Ottanta e Novanta «da quella sponda» – così si intitola la prima sezione, in occasione cioè di un viaggio americano, e «da questa sponda» – titolo della sezione seconda- cioè da Revine Lago. È un Cecchinel abbastanza inconsueto questo «tra le sponde»: qui la sua poesiatutta in lingua ma con importanti inserti angloamericani, assume un’andatura narrativa quasi lieve, come in the mood da Buffalo, New York 1984 «entro la piazza sorpresa/gente bianca nera/lenta ondeggia/non per fuoco o acqua/ o crescita naturale/ma quasi per un vento astrale/sotto una luna pendente/come ammaestrata a danzare/sotto un grappolo di abrasi/anneriti grattacieli/no forse una blusa stinta/lasciata su un filo in bilico/sopra un vertiginoso terrazzo/a muoversi irriverente/per un vento giocoso/nel capriccio dell’improvvisa piazza/contro il cielo irrigidito innaturale/così con leggera astuzia/dondolano a un tempo/grattacieli e luna//. Pur conservando, come evidente, lo stile «alto» del dettato questo diverso Cecchinel apre scenari di movimento, scenografie aeree «chagalliane», così come ritratti in bozzetti, icone degli Usa di fine millennio, vedi «il signore di Frisco», San Francisco 1995: «Leggero sulle scarpe da ginnastica/ma con capelli e barba da profeta/vivi alle folate della baia/giovane devastato o vecchio energico...», non scevri tuttavia di amara critica verso un mondo altro: «Brevi sabbie rosse/per nuovi cowboys e giacche blu/a rifarsi infallibili esecutori/di bisonti e indigeni/per il gran museo di celluloide/di loro signorie/movie stars...». E se dovesse mai tornare in mente Italy di Giovanni Pascoli, questa risposta di Cecchinel al mito americano trova la sua perfetta quadratura in «sundown medley», lungo «blues» che chiude il libro, per modi e toni più vicino a Allen Ginsberg che al grande poeta romagnolo, fitto di riferimenti agli ideali cantati da Whitman, tanto quanto all’amata tradizione della musica country.
Ci sembra che con questi versi tormentati da domande senza risposta Luciano Cecchinel, senza tradire la sua voce sommessa e solenne al tempo stesso, abbia voluto evocare un sé ormai lontano, nel monologo che accompagna, come un sound track, l’ultimo definitivo cammino americano compiuto nel 2016 dal poeta «per chiudere il cerchio».