Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
SOSPESI E UN PO’ PIÙ UGUALI
Dentro l’emergenza Dalla tv agli spot, dal lavoro agli stili di vita: il mondo prima e dopo lo spartiacque del 4 marzo, tra il senso azzerato della competizione e la voglia di «ostalgia»
In alto a destra dello schermo di alcune trasmissioni televisive appare sempre più spesso la scritta: «Registrato prima del decreto del 4/3/ 2020». Gli autori mettono le mani avanti e avvertono: scusate se il programma non vi sembra pertinente, perdono se il tono vi sembra inappropriato, non è colpa nostra se non parliamo del coronavirus, se non teniamo conto di voi o ne ignoriamo l’esistenza, il programma è stato fatto e pensato prima del 4/3/2020.
Ora, dal momento che anche noi siamo stati fatti e pensati prima del 2/3/2020, l’avvertimento va esteso: dopo i distanziati saluti, con amici, parenti e conoscenti (lettori compresi) anche noi dovremmo aggiungere la postilla: scusate per quello che ho detto e pensato prima del dpr 4/3/2020, forse ci credevo, adesso non ci credo più, quello che ti parlava era un altro o, meglio, era l’epoca ad essere un’altra, adesso i tempi sono diversi e anch’io sono diverso. Chi non aveva paura ora ce l’ha, chi sminuiva ora stima, chi non credeva adesso prova vergogna della propria incredulità.
Serve compassione, urge una amnistia generale, mutua e scambievole da concedersi l’un l’altro, anzi è già in atto, un velo pietoso sul detto e sul fatto; è tempo di resipiscenza collettiva, prima e dopo il Coronavirus. In mancanza d’altro invochiamo la smemoratezza, si faccia prima di tornare a quelli che eravamo, cosa che accadrà ma, nel frattempo, ecco alcuni segnalibro da appuntare per consolazione.
Tacciono intanto le comari da talk show e l’epidemiologo sostituisce il politico (non sempre con risultati diversi), Crozza è sospeso, ciò che prima intratteneva ora annoia e in tutte le nostre manifestazioni la distanza da quel che eravamo aumenta, persino gli spot pubblicitari sono surreali, confezionati in un altro spazio tempo, prima del dpr 4/3/2020 e pervenuti ora a un consumatore che non c’è più. Il Coronavirus ha fatto una falò delle nostre vanità.
Siamo in pausa e tra le cose felicemente perdute c’è la competizione sociale. La «corsa dei ratti» è ferma, i mesi persi a scuola non contano, quelli sul lavoro (finché dura) anche, la nostra disoccupazione forzata non entrerà nei curricula, persino l’artigiano, il barista e il negoziante che non vede una lira possono consolarsi col fatto che nessuno gli fregherà i clienti. Il dio dell’arrabattarci ci ha dato una tregua e perdona i peccati di accidia a cui siamo costretti.
Lo sentiamo, è un sollievo, e per quanto effimero e illusorio, ci aiuta per il tempo che ci hanno aiutato le precedenti convinzioni, in attesa di un altro decreto che le cambi, noi pronti a scusarci nel caso dovessimo pentirci anche di queste.
Sospesi i confronti, fuori luogo le esibizioni, rinviati desideri e ambizioni, tornati al nostro stato di bipedi siamo un po’ più uguali: nelle nostre tute da ginnastica, con le macchine in garage e le case chiuse (per chi ce l’ha) non si rivaleggia, mancano i ristoranti e i negozi per farlo, vietata la «vasca» in centro, privati come siamo di un menù «a la carte» ci ritroviamo tutti in fila alla comune mensa delle possibilità. E’ come se la lingua dei beni materiali, quella che li adorna e ci faceva incontrare e scontrare, fosse improvvisamente diventata afona, incapace di raccontare il mondo.
Se ne è andato il lavoro (il tornio ancora non lo si porta a casa checché ne dicano e così il parcheggiatore abusivo che a Napoli non ha più niente di cui abusare mentre la favola dello smart working non la puoi raccontare all’edile), chiusi i luoghi dove si praticava e avveniva la realizzazione, la competizione è sospesa per impraticabilità del campo.
Quando finirà ci ricorderemo e capiremo cosa intendono i tedeschi dell’est quando parlano di «ostalgie», del rimpianto per il bel tempo antico in cui nessuno di loro doveva competere e non dovevano far niente per meritarsi il lavoro. Nel ’90, a comunismo appena caduto, una ragazza ceca mi spalancò gli occhi incredula: «Come siete diversi l’uno dall’altro voi italiani - diceva stupita - noi siamo tutti uguali». Ecco, ora lo siamo un po’ meno, un po’ più uguali, pascaliani per forza, costretti come siamo a fare i conti col grande francese, «tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene in pace, in una camera».