Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
L’ANELLO DEBOLE
Se n’è parlato e se ne parlerà a lungo, delle case di riposo, specie dopo la morìa di pazienti/clienti, in molte regioni e anche nel Veneto. Prima se ne scriveva in cronaca per casi (sperabilmente) eccezionali, quando erano stati scoperti maltrattamenti ad anziani ricoverati, da parte di inservienti o infermieri sprovvisti di cuore e di cervello. Oppure se ne discuteva in famiglia quando un anziano non era o non si sentiva più in grado di vivere nella propria casa, o in quella dei figli. Per calo di energie, per minore autosufficienza nel corpo o nella mente, per incapacità di vivere in ambienti in cui cominciava a sentirsi un alieno. Anche chi sceglie, però, ha spesso delle paure e dei dubbi: come si sentirà ad abbandonare molte delle proprie cose e ricordi? Sarà, dopo qualche tempo, abbandonato e dimenticato? Sarà trattato bene? Soffrirà di solitudine, di noia, di malinconia? Ma nonostante i comprensibili timori non sono pochi coloro che decidono di entrare in qualche struttura dedicata: ricca, simile a un hotel (e costosa) o più simile a un ospizio per diseredati. Dove può trovare affetto, cure, stimoli fisici e mentali, ma anche personale poco preparato a riconoscere la centralità di ogni persona, i suoi sentimenti e rimpianti, la sua storia.
Ci sono case ottime e altre men che mediocri. Insomma si tratta di un arcipelago fatto di isole diverse fra loro, nel bene e nel male. La casa di riposo è un fenomeno recente, sconosciuto nel passato remoto quando la vita umana era assai più breve e i vecchi una rarità. Le prime strutture residenziali cominciarono a diffondersi nell’Ottocento, e soprattutto dopo la rivoluzione industriale, quando con l’inurbamento anche molte donne cominciavano a lavorare in fabbrica. In campagna, fino a pochi decenni fa, le cose procedevano diversamente. Nella famiglia patriarcale il vecchio godeva di aiuto e rispetto, accudito da figlie e nuore, e spesso non rinunciava al potere vita natural durante. Ma oggi anche nelle periferie isolate non è quasi più così e la scelta più frequente è per la struttura sociosanitaria dedicata alle esigenze dei più anziani, ai loro valori e stili di vita. In Gran Bretagna quasi tutti i vecchi trascorrono nelle «Care homes» la loro terza o quarta età: non esiste una rete di supporto familiare e non si fa di solito uso di badanti. Ma si preferisce non mandare i più fragili in ospedale, specie in tempi di epidemia, perché «non prioritari». Anche in Svezia, recentemente, un’ordinanza ha avvertito che chi ha compiuto gli ottant’anni non ha diritto a essere curato in ospedale. È il tema arduo della «scelta» fra i salvati (salvabili) e i sommersi, spesso a posteriori negata, ma altrettanto spesso effettuata. A questo punto la prima domanda che sorge spontanea è quella se, finita l’utilità sociale, il vecchio abbia sempre meno diritto a vivere come gli altri. Ma, seconda domanda: a che età si è vecchi? C’è chi dice a 65, chi a 70, chi a 75…. Però la vecchiaia non è solo un dato anagrafico. Ci sono vecchiaie deboli e vecchiaie forti, alcune perfino produttive e creative. Una storiella sosteneva che, se un vecchio è un genio, un Mozart o un Alighieri, ha diritto di vivere fino a morte naturale, ma se non è più creativo, allora si può lasciarlo morire. Una concezione dell’esistenza, insomma, utilitaristica e smemorata: perché i vecchi sono il nostro passato, la nostra memoria storica, coloro che ci han fatto crescere, studiare, trovar lavoro, che hanno accudito i nostri bambini. Assurdo dunque anche pensare che siano gli ultimi ad uscir di casa, se non lo vogliono, nelle prossime fasi 2 o 3 del coronavirus, cioè che siano costretti a sopravvivere in una sorta di Medio Evo penitenziale. Non è la nostra Costituzione a ricordarci che abbiamo tutti gli stessi diritti?