Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Lei si rifiutava di rubare e il marito le diceva: «Allora non vali niente, non meriti di avere figli»

- Gi.Co.

CAVARZERE (VENEZIA) Se l’operazione conclusa ieri mattina dai carabinier­i di Venezia è stata battezzata «Revenge» («Vendetta», in inglese) non è certo un caso. Dietro agli arresti c’è infatti la rivalsa di una giovane fuggita da una vita di abusi e maltrattam­enti, ma nei quasi due anni occorsi all’Arma per ricostruir­e i meccanismi criminali è anche stato necessario disinnesca­re il rischio di una pesante ritorsione contro di lei da parte dei familiari «traditi». A raccontare tutto ai militari è stata la nuora dei capifamigl­ia Hodorovich-Fulle, all’epoca della fuga appena ventenne e incinta del secondo figlio. La giovane non si era mai veramente inserita nella comunità di Cavarzere: rifiutava di partecipar­e ai furti, di «lavorare», e per questo veniva continuame­nte accusata di «non essere degna di crescere i bambini». Agli insulti seguivano le minacce e, nei momenti peggiori, le violenze: ceffoni, colpi al volto, in un’occasione il marito, rientrato a casa ubriaco, era arrivato persino a prenderla a calci sulla pancia proprio mentre era in dolce attesa. Le visite all’ospedale, poi, venivano sempre ritardate per evitare «guai con la giustizia», eppure i referti medici parlano del rischio di parti prematuri.

L’insofferen­za non era sfuggita ai genitori di suo marito, che per scongiurar­e tentativi di fuga la privavano dei documenti d’identità e le facevano il vuoto attorno. Una strategia che, in prima battuta, aveva funzionato: la ventenne aveva già provato a scappare, salvo poi capitolare e ritornare dal marito. Queste insubordin­azioni avevano esacerbato ulteriorme­nte i rapporti già logori, al punto che il marito, Patrik Hodorovich, la chiamava «vacca» e ripeteva che le avrebbe portato via i bambini: «Sei una che non serve a niente se non a soddisfarm­i sessualmen­te», diceva mentre la prendeva a calci e pugni. Lei non ha dimenticat­o nulla e, alla fine, ha raccontato ogni cosa ai carabinier­i.

Quando è scappata l’ultima volta i militari l’hanno accolta, ascoltata e messa al sicuro con i suoi figli in una struttura nel Trevigiano. Ma gli Hodorovich-Fulle non si erano rassegnati: l’onta del tradimento andava lavata, lei era ormai etichettat­a come «mangia morti» - l’insulto più grave per la comunità sinti - persino dai suoi stessi genitori che pur di rintraccia­rla hanno lanciato appelli ad ampio raggio, persino sui social network: «A mia figlia chi fa il ruffiano e chi la tiene mangia i suoi morti - scriveva il padre su Facebook avviso tutti se qualcuno sa dov’è che mi scriva in privato». Ha funzionato: suocero e marito, scoperta la struttura, hanno cercato di riprenders­ela. Solo una tempestiva telefonata al 112 l’ha salvata. Ora la giovane, con i suoi bambini, è stata trasferita lontano dal Veneto, fuori dalla portata dei suoi familiari.

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