Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Se l’unto diventa untore, le scuse agli specializzandi
Imputare agli specializzandi colpe di assembramento e di conviviale promiscuità è ingeneroso, e soprattutto non tiene conto della ristrettezza degli spazi in cui questi medici fanno la pausa pranzo e aggiornano cartelle (con mense e bar a scartamento ridotto), spazi angusti per assemblare menti e alimenti, che spesso si confondono.
Se i pazienti ricevono lettere di dimissione che profumano di mortadella non è perché sono lettere di Bologna; può capitare di lasciare qualche impronta di sottaceti e di prognosi sottaciute, ma non per questo si è untori. Qualcuno deve chiedere veramente scusa agli specializzandi, che sono chiamati a una missione, sono unti del Signore non untori di signore. Chi comanda, invece di frustare cavalli sfiancati, apra stalle di monta, provi a sturare l’imbuto formativo che impedisce a tanti giovani medici di accedere alle scuole di specialità, un’ emergenza drammatica.
Nel dopo Covid 19 negli ospedali rischiamo di trovare più ventilatori che dottori. I medici in formazione, non per questo dottorini come qualcuno li chiama, sono i pilastri della sanità. Io non potrei mai lavorare in un ospedale senza specializzandi. Sarebbe come entrare in un parco senza bambini. Come si può fare a meno del loro «lieto romore», dei vaneggiamenti infantili, della curiosità che scalcia nella pancetta di un mestiere vertiginoso e usurante? Se dovessi invecchiare al punto di non essere più di questo avviso, ditemelo perché «non vorrei far parte di un club che accetti tra i suoi soci uno come me».
In questi giorni distopici e disperati, nei viali deserti del Sant’Orsola a Bologna si apriva il cuore solo vedendo qualcuno di questi camici vergini e frementi. Se gioventù sapesse. La pandemia ha dato ragione al poeta irlandese Yeats, non perché sia l’anagramma del lievito inglese, tanto venduto adesso, ma per quanto si legge nella poesia Verso Bisanzio: «Questo non è un paese per vecchi. I giovani abbracciati, gli uccelli sugli alberi, generazioni morenti che cantano».
Una poesia sui vecchi che muoiono anzitempo, sul corpo che non impara mai gli anni, sulla natura rigenerante, sui giovani abbracciati, la primavera indifferente e la necessità di un Ospedale antico con tutti i monumenti dell’intelletto che non invecchia. E su questi monumenti talvolta, per fortuna, ci salgono anche i bambini. Che quando suona la campana, grazie a dio, ci sono.