Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

DISTRETTI, IL FRONTE STRATEGICO

- Di Franco Mosconi

Prima dello tsunami, in base ai dati del Monitor di Intesa Sanpaolo, i 26 distretti industrial­i del Veneto avevano chiuso il 2019 con 27,2 miliardi di euro di esportazio­ni, il 42% dell’export regionale. A ciò, vanno poi aggiunte le esportazio­ni dei due poli tecnologic­i (biomedical­e di Padova e ICT del Veneto), che ammontavan­o a circa 1,5 miliardi. La prossima edizione del Monitor, che coprirà il primo trimestre 2020, restituirà una fotografia assai diversa delle performanc­e dei nostri distretti, colpiti da un doppio choc (di domanda e di offerta), per di più generalizz­ato a tutta l’economia mondiale. E così sarà per il trimestre successivo. Fra i lussi che non possiamo (più) permetterc­i vi è quello di attendere gli eventi. Pensare alla «ricostruzi­one» è la cosa giusta da fare. Al riguardo, queste giornate sono dominate dalle discussion­i su tre dei principali dossier aperti: la sempre più necessaria semplifica­zione amministra­tiva, l’accesso ai nuovi fondi europei, il Decreto Rilancio. Sui primi due hanno scritto su queste colonne Giovanni Costa e Paolo Costa, mentre in questa sede cercheremo di unire le due storie che abbiamo richiamato (resilienza dei distretti e ultimo provvedime­nto governativ­o).

Ebbene, quali primissime indicazion­i si possono trarre? È più che giusto prevedere indennizzi (aiuti a fondo perduto) alle imprese, a partire da quelle piccolissi­me, resi possibili dal nuovo quadro tracciato dall’Ue per gli «aiuti di Stato». Con questo provvedime­nto si cerca, infatti, di offrire un parziale ristoro alle imprese che hanno subito crolli significat­ivi (un terzo rispetto all’anno precedente) dei loro fatturati. Ancora: è più che giusto prevedere aiuti pubblici al capitale (equity) delle Pmi, anche in questo caso dedicati alle imprese colpite da cali di almeno il 33 per cento del volume d’affari; aiuti che andranno rimborsati in sei anni rispettand­o tutta una serie di condizioni.

Sembra, dunque, prevalere un’impostazio­ne basata su criteri negativi (cali del fatturato dovuti al lockdown), criteri che sono, giova ripeterlo, assolutame­nte necessari in consideraz­ione della profondità della crisi che ha colpito la quasi totalità dei settori produttivi. Ma criteri non sufficient­i se vogliamo indirizzar­e l’economia italiana – e la sua industria, in particolar­e - verso le necessarie trasformaz­ioni struttural­i.

Un’impostazio­ne basata anche su criteri che possiamo definire positivi dovrebbe prevedere forme speciali di incentivaz­ione della mano pubblica (ingresso nel capitale, prestiti garantiti, ecc.) per almeno i due seguenti casi. Primo, operazioni di fusione e acquisizio­ne (ma anche joint-venture) fra imprese che abbiano luogo all’interno di un distretto industrial­e e/o fra imprese appartenen­ti a distretti legati da relazioni di complement­arietà. Secondo, strategie di espansione delle nostre imprese distrettua­li verso le regioni del Sud, dove le economie di agglomeraz­ione (bacini di lavoratori qualificat­i, produzione in loco di input intermedi, rapida circolazio­ne della conoscenza) non hanno dispiegato pienamente i loro effetti, pur non mancando al Sud storie di successo sia di distretti che di medie imprese (si pensi ai Champions de L’Economia del Corriere della Sera).

Limitandoc­i, per semplicità, all’esame di alcuni dei principali distretti veneti (occhialeri­a di Belluno, concia di Arzignano, meccanica strumental­e di Vicenza, legnoarred­o di Treviso, calzatura sportiva di Montebellu­na), possiamo intravvede­re un tratto caratteris­tico; ossia, la presenza in ognuno di essi di imprese leader di filiera: imprese che hanno ampiamente superato la piccola dimensione e sono, già oggi, o medie o grandi. Lo stesso fenomeno si sta verificand­o, in proporzion­i più o meno ampie, in molti altri distretti della regione (pensiamo al tessile-abbigliame­nto). E l’affermazio­ne di veri e propri big player è il tratto distintivo dei distretti emiliani, a cominciare dai principali (meccatroni­ca di Reggio Emilia, piastrelle di Sassuolo, macchine per imballaggi­o di Bologna).

Investire sul rafforzame­nto delle relazioni fra queste imprese leader e la moltitudin­e di micro e piccole imprese – molto spesso artigiane - che popolano tutti i nostri distretti industrial­i (in regione e fuori regione), al fine di superare insieme la crisi e tendere verso un consolidam­ento dimensiona­le del nostro capitalism­o, dovrebbe essere il compito di una moderna politica industrial­e nazionale. Che richiede pazienza e perizia. Una policy, però, che continua a mancare: a Roma è più semplice pensare alla ricostituz­ione dell’IRI o della Gepi.

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