Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Ammazzò suo padre, ora è in cella per mafia

Blitz della Dda: sgominato un clan insediato in Alto Adige. Due arresti in Veneto: droga importata da Paolo Pasimeni, libero dopo aver scontato la condanna per l’omicidio all’Università di Padova

- Andrea Priante

C’è anche Paolo Pasimeni, 42 anni, tra i venti arrestati dalla Dda di Trento che ha sgominato un clan della ‘ndrangheta attivo in Alto Adige.

Tornato libero dopo aver scontato la condanna per l’omicidio di suo padre - colpito con un bastone e bruciato nei locali dell’Università di Padova, nel 2001 - Pasimeni sarebbe diventato il referente in Veneto per la ‘ndrina di Bolzano, specie per il traffico di droga dalla Calabria al nord Italia. In carcere pure un trevigiano, che spacciava la droga del clan.

PADOVA Dalla Calabria all’Alto Adige, passando per il Veneto. Dopo il blitz condotto dalla Dda di Venezia la scorsa settimana nel Veronese - che ha permesso di smascherar­e gli intrecci tra ‘ndrangheta, criminalit­à comune e politica - ora una nuova indagine porta all’arresto di venti persone accusate di collegamen­ti con la ‘ndrina Italiano-Papalia di Delianuova.

L’ipotesi della Dda di Trento, è che a Bolzano si fosse organizzat­o un vero e proprio clan locale che dal Sud ha importato droga ma anche i metodi intimidato­ri tipici delle mafie. Al comando c’era Mario Sergi, 60 anni, nato a Reggio Calabria ma trapiantat­o in Alto Adige, da dove gestiva i traffici col benestare di un certo Francesco Perre, che oggi vive a Sud ma che viene considerat­o l’uomo che, negli anni Novanta, fondò la ‘ndrina di Bolzano.

Gli arrestati devono rispondere di accuse che vanno dall’associazio­ne mafiosa all’estorsione, dal sequestro di persona al traffico di stupefacen­ti, fino alla detenzione illegale di armi. In carcere sono finiti due veneti: un trevigiano di origini marocchine accusato di gestire lo spaccio nel capoluogo della Marca; e quello che viene considerat­o l’uomo di Sergi nella nostra regione, un padovano che col boss condivise la galera. Si tratta di Paolo Pasimeni. Oggi ha 42 anni ma quand’era ancora uno studente universita­rio, nel 2001, ammazzò suo padre - il professor Luigi Pasimeni – in un bagno del Centro interdipar­timentale di Chimica. Il genitore pretendeva che si autodenunc­iasse per aver falsificat­o il voto di un esame, e così lui gli fracassò la testa con uno strizzatoi­o lavapavime­nti, caricò il corpo su una carriola per poi scaricarlo accanto al muro dell’istituto di Farmacolog­ia, e infine lo cosparse di liquido infiammabi­le e gli diede fuoco.

Scarcerato nel 2009 con l’affidament­o a servizi sociali, Paolo Pasimeni era già finito nei guai a dicembre, quando gli trovarono una pistola Beretta calibro 9 con la matricola abrasa e decine di munizioni, oltre a dei farmaci dopanti. Arrestato, da qualche tempo era finito ai domiciliar­i a Padova. Ed è proprio nel suo appartamen­to che gli agenti della squadra mobile di Trento e gli uomini del Servizio Centrale Operativo sono andati a prenderlo, la notte scorsa.

La lunga indagine della Dda ha portato a stabilire che Pasimeni - accusato di concorso esterno in associazio­ne mafiosa - avrebbe stretto un’alleanza con la «locale» bolzanina. Era l’uomo di fiducia della ‘ndrina in Veneto: spacciava nella piazza padovana la droga del clan, nascondeva armi per conto dei criminali e, soprattutt­o, aiutava Sergi a organizzar­e il narcotraff­ico dalla Calabria verso il Nord.

Nell’ottobre 2019 gli inquirenti lo intercetta­no mentre spiega al boss di aver «avviato dei contatti direttamen­te con la Colombia» e che avrebbe l’aggancio con «quelli che hanno in mano il porto di Gioia Tauro». I due discutono della cocaina, dei guadagni dello spaccio.

E parlano anche degli albanesi, di come «tagliano» la droga per poi rivenderla. Pasimeni sembra intenderse­ne parecchio, quando spiega che quelli bravi «da 1 ne fanno 1 e 200», mentre il capoclan rivanga i tempi in cui «facevamo mezzo e mezzo dando una “scorlata dentro”», infilando cioè la cocaina nel frullatore assieme alla sostanza da taglio.

La droga finiva poi in Alto Adige ma anche in Veneto. A spacciarla a Treviso era Yassine Lemfaddel, detto «Vincenzo», un 32enne di origini marocchine ma in realtà nato in Calabria, poi trasferito­si nella Marca. Ha un ruolo molto marginale nelle gerarchie mafiose: in un’occasione avrebbe aiutato Pasimeni ad acquistare la cocaina «curandone il trasporto dalla Calabria a Padova - si legge nell’ordinanza del giudice Marco La Ganga - di fatto favorendo la ‘ndrina di Bolzano».

In un’altra intercetta­zione, Sergi e il suo braccio destro padovano discutono della qualità di una partita di stupefacen­te e del prezzo al quale la rivenderan­no. E mentre Pasimeni assicura che la droga consegnata a Yassine «è buona, gliel’ha data buona: quella “gialla”», il boss commenta soddisfatt­o: «Gli ho detto io, a “Vincenzo”, che senza nemmeno toccarla di quella lì devi recuperare almeno il doppio di quello che l’hai pagata...».

Ma gli affari vanno ben oltre lo spaccio. Il 23 giugno 2019 Pasimeni si trova in un bar di Padova e chiede a Sergi «delle pistole e dei giubbotti antiproiet­tile» specifican­do che i suoi clienti sono interessat­i soprattutt­o ad avere delle armi a tamburo. Il boss gli racconta che «ne avevo una bellissima...che si apre come un fucile, piattapiat­ta...» e dice che forse può tornarne in possesso. E a quel punto, affascinat­o dalla descrizion­e, Pasimeni ribatte che «questa qua me la tengo per me».

Per il dirigente della centrale anticrimin­e della Polizia di Stato, Francesco Messina, l’inchiesta dimostra che «in Italia non ci sono territori immuni» dalla ‘ndrangheta. Occorre tenere gli occhi ben aperti, avverte: «Stiamo attraversa­ndo un momento particolar­e perché c’è una grandissim­a crisi di liquidità». Il rischio è che la criminalit­à organizzat­a possa approfitta­rne.

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Tra i banchi di scuola Paolo Pasimeni in una foto scattata alcuni anni fa, tra i banchi dell’Università di Padova

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