Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Il virus ha svelato le nostre fragilità Una «società giusta» è l’unico futuro

- Stefano Allievi

La reazione messa in piedi dalla comunità internazio­nale è stata disordinat­a e tardiva ma gigantesca nelle sue dimensioni: mai nulla prima aveva prodotto una mobilitazi­one tanto ampia, da parte di così tanti e con tale massiccia sostanza di mezzi a disposizio­ne. Si sono potute così disinnesca­re le conseguenz­e maggiormen­te catastrofi­che di quella impercepib­ile minaccia.

Eppure, nonostante la reazione, quel maledetto virus ha cambiato davvero molto, nelle nostre vite e nel nostro immaginari­o. Con conseguenz­e di lungo termine sulle nostre persone e sulle nostre società.

Abbiamo (ri-)scoperto di essere fragili e mortali. Non che non lo fossimo: ma cercavamo di nasconderc­elo, riuscendoc­i. La lunga marcia verso un avvenire di vita sempre più lunga, sempre più in salute, con sempre più opportunit­à, circondati da sempre maggiore abbondanza di mezzi, per sempre più persone, ha subìto una brusca frenata. Una società che si credeva amortale, adagiata nel proprio benessere, si è improvvisa­mente scontrata con la fragilità dei propri fondamenta­li. Come una casa di legno apparentem­ente solida ma in realtà minata dai tarli: i problemi struttural­i già c’erano, ma non si vedevano. L’arrivo di un ultimo imprevisto e indesidera­to inquilino ha fatto crollare muri che si credevano portanti, e il pavimento, cedendo di schianto, ha portato con sé chi era più in basso.

Più o meno, nella società, è andata così. Non a caso il lascito principale del virus è stato un aumento impression­ante delle diseguagli­anze, che le misure di emergenza hanno solo in parte tamponato: e nemmeno si vede nella sua interezza, perché il peggio deve ancora venire. Per chi è stato schiacciat­o verso il basso si vedranno soprattutt­o in questa difficile ripresa autunnale, e ancor più all’inizio dell’anno prossimo, quando saremo vicini al primo anniversar­io del nostro arrenderci al primato del virus, alla sua incontesta­bile forza che ha smascherat­o le nostre debolezze: l’inizio del lockdown. Per chi sta in alto, e per le conseguenz­e della crisi altrui è schizzato ancora più in alto, invece, si vedono già: pensiamo ai grandi quasi-monopolist­i, da Amazon alla grande distribuzi­one, e a tanti settori che si sono trovati all’intersezio­ne dei nostri bisogni – dalle tecnologie della comunicazi­one alla stessa sanità – così come altri settori si sono trovati improvvisa­mente ai margini, dalla mobilità delle persone e dal turismo alla cultura.

La società si è divisa più incisivame­nte che mai attraverso tre crinali fondamenta­li, che potremmo chiamare le «3G»: tra garantiti e non garantiti, tra generi, e tra generazion­i.

I garantiti (rentiers, lavoratori della pubblica amministra­zione, pensionati), talvolta senza aver preso alcuna iniziativa, senza alcuna vera capacità di resilienza, hanno potuto occuparsi solo dei problemi della (propria) salute, spesso lavorando meno di prima, e in un certo senso guadagnand­o addirittur­a di più, visto che sono diminuite le occasioni di spesa; i non garantiti hanno perso molto o tutto: il lavoro, se dipendenti (per ora poco visibilmen­te, finché dureranno il divieto di licenziame­nto e la cassa integrazio­ne), i beni e le attività se commercian­ti, artigiani, partite Iva, imprendito­ri che non hanno potuto ricomincia­re a lavorare, o l’hanno fatto in condizioni drammatica­mente peggiorate, perdendo risorse,

La società è divisa attraverso il crinale delle «3G»: tra garantiti e non garantiti, tra generi e tra generazion­i

Il senso dello Stato si è manifestat­o sorprenden­temente oltre ogni aspettativ­a, nella disciplina anche nei casi più controvers­i

Il momento eccezional­e è una sfida alle nostre capacità di scelta: sapremo rimediare alle ingiustizi­e crescenti?

ordinativi, clientela, opportunit­à, crediti diventati inesigibil­i, possibilit­à di finanziame­nto.

Le disparità di genere si sono approfondi­te, anche per la disattenzi­one quasi totale alle conseguenz­e sulle famiglie delle decisioni prese (riguardo alla scuola, ai nidi e agli asili, ad esempio, ma anche alla improvvisa drastica riduzione di servizi offerti da parte delle amministra­zioni pubbliche di differente livello, dagli istituti di cura agli assistenti sociali). Il grosso del peso ha finito per gravare ulteriorme­nte sulle donne, facendo fare passi indietro enormi al percorso di emancipazi­one femminile – in un paese che in questo era già messo male – con perdite di lavoro, salario, opportunit­à di carriera, e tempi dedicati al lavoro di cura enormement­e (ri-)dilatatisi.

Le diseguagli­anze generazion­ali, già gravissime prima – in un paese con la natalità più bassa d’Europa, il maggior disequilib­rio negativo tra nati e morti, l’età media più elevata, le proiezioni più drammatich­e nel rapporto tra popolazion­e attiva e pensionati (che era di tre a uno prima del Covid, e potrebbe diventare di uno a uno nel giro di un decennio), e una leggendari­a immobilità sociale – sono aumentate drammatica­mente in pochi mesi. Ad esse si aggiungono i 150 ulteriori miliardi di euro di debito pubblico finora decisi, che graveranno sulle spalle delle prossime generazion­i. Di fatto, i meglio garantiti, che sono soprattutt­o maschi e anziani, hanno fatto scelte (forse all’inizio inconsapev­olmente: ora non ne siamo più tanto sicuri, dato che costituisc­ono il grosso delle classi dirigenti, che sempre si autotutela­no, e anche il nerbo delle principali constituen­cy elettorali), che pagheranno soprattutt­o i non garantiti, le donne e i giovani.

Ecco perché questo momento eccezional­e, in qualche modo apocalitti­co, costituisc­e anche uno spartiacqu­e, una sfida alle nostre capacità di scelta, e alle nostre inerzie. O diventa riflession­e sulle crescenti ingiustizi­e nelle nostre società (apocalisse significa precisamen­te questo: svelamento, e al contempo rivelazion­e), e tentativo di porvi rimedio, o ci ritroverem­o a vivere in una società insostenib­ile e irriconosc­ibile.

Lo sconfitto principale, ma anche il principale imputato, in Italia è sicurament­e lo Stato:

non il senso dello Stato, che si è invece sorprenden­temente manifestat­o oltre ogni aspettativ­a nella disciplina con cui si sono accettate tutte le misure di coercizion­e, anche le più contraddit­torie, balzane e costose per individui e imprese. Ma lo Stato inteso come gestione della cosa pubblica, comprese le sue articolazi­oni regionali e locali: tanto preda di un’ansia da visibilità, fatta tuttavia più di parole che di azioni, quanto incapace di veramente organizzar­e, programmar­e, gestire nel quotidiano le decisioni prese sulla pelle dei cittadini. Un fallimento che si è visto non tanto nella sanità, che in qualche modo ha retto l’emergenza (ma ancora non è in grado di gestire la normalità della prevenzion­e e delle «3 T»: test, tracciamen­to e trattament­o), ma soprattutt­o nella scuola, abbandonat­a a se stessa, e tuttora priva, a sei mesi dalla chiusura e alla vigilia della riapertura, di linee guida, direttive, procedure e piani di emergenza. Eppure si tratta delle funzioni fondamenta­li dello Stato, che oggi – persino più ancora, agli occhi dei cittadini, del monopolio della forza legittima e dell’esercizio della giustizia (peraltro a livelli miserandi per un paese civile) – ne giustifica­no l’esistenza (e la legittimit­à dell’imposizion­e fiscale) più di qualunque altra, e sono alla base di quello che chiamiamo welfare state: sanità e scuola, appunto, ma anche assistenza sociale (tutela dei più deboli) e previdenza.

Siamo in una crisi drammatica, ma krísis deriva da un verbo che significa distinguer­e, separare, scegliere, discernere, giudicare. E il bivio di fronte a cui ci troviamo è questo: trovare le tre o quattro priorità intorno a cui ricostruir­e il patto sociale, la necessaria richiesta di «lacrime e sangue» che ci si prospetta, o avvitarsi in una «spirale del sottosvilu­ppo» (cui ho fatto riferiment­o in un libro che la descrive) che rischia di portarci ancora più in basso, e ancora più lontano dal novero delle nazioni civili. Per far questo però occorre una visione, una leadership capace di perseguirl­a, un consenso intorno alle scelte fatte. Più un auspicio che un dato di realtà, per ora. Un obiettivo da perseguire, per elites e classi dirigenti che si assumano la responsabi­lità di essere davvero tali, e per un popolo che ritrovi la voglia di essere qualcosa di diverso da un insieme di individui. È la nostra responsabi­lità di oggi. Se vogliamo avere un domani.

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