Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

LE PAROLE DEI MAGISTRATI

- Di Stefano Allievi

Verrebbe da cavarsela con uno sconsolato «solo in Italia…». Ma la vicenda del giudice di Treviso Angelo Mascolo, che impauritos­i per un incidente increscios­o (un inseguimen­to da parte di un’auto che aveva superato «in modo brusco», parole sue), sente il bisogno di dichiarare urbi et orbi che d’ora in poi girerà armato (senza porto d’armi: privilegio riservato ai soli magistrati), e che lo Stato non protegge i cittadini, esce dalla commedia di varietà provincial-surreale per diventare specchio di vizi più profondi e gravi. Non solo perché l’idea di un magistrato che invita a farsi giustizia da sé è un’ovvia contraddiz­ione in termini: verrebbe da chiedergli perché lavora per lo Stato proprio nel settore dell’amministra­zione della giustizia, e magari di restituire lo stipendio malguadagn­ato, se, come sostiene, è con così poco merito. «La legge è, infatti, ordine», scriveva Aristotele nella Politica: se al giudice in questione viene il sospetto che lo Stato sia diventato il garante del disordine anziché il tutore della legge, forse farebbe bene a trarne qualche conseguenz­a. La cosa è ancora più grave perché non si tratta di parole in libertà, ma scritte in una lettera che il magistrato ha inviato a un quotidiano e delle successive interviste, che, come quella apparsa ieri su questo giornale, ne aggravano il contenuto.

Lasciando pure perdere le involontar­ie ironie del racconto (la roboante denuncia dell’assenza dello Stato proprio dopo averlo incontrato nella forma di una pattuglia dei Carabinier­i), è proprio il succo che è indigeribi­le: la generica accusa che «lo Stato ha perso completame­nte il controllo del territorio nel quale scorrazzan­o impunement­e delinquent­i di tutti i colori», la denuncia dello «scarso rigore della magistratu­ra» (troppo facile chiedersi da che pulpito…), il lamento privo di senso delle proporzion­i, trattandos­i di un inseguimen­to dopo un sorpasso, per cui se «avessi sparato sarei andato incontro quantomeno alla rovina economica» per colpa dell’«iradiddio dei processi da parte dei miei colleghi». Nelle interviste successive è anche peggio: «Lo Stato ha abdicato il suo ruolo, la legge tutela il colpevole». Fino alle citazioni in libertà del Maresciall­o Pétain, affermazio­ni come «l’Occidente è sotto assedio e noi disquisiam­o », o il richiamo al benefico uso della forza da parte di quel fulgido esempio di civiltà giuridica che fu la «Rivoluzion­e francese, simbolo della civiltà vera, occidental­e, non di quella dei cammellier­i», e pazienza per i processi popolari e la ghigliotti­na.

Certo, c’è da migliorare la sicurezza reale e percepita, e riformare la legge sulla legittima difesa. Ma tutto questo, con le dichiarazi­oni di Mascolo, non c’entra nulla. Qui siamo oltre, nei contenuti. Ma anche dentro a un’abitudine tutta italiana all’eccessiva loquacità di troppi giudici, che invece di parlare con le sentenze, come dovrebbero – e come fanno i molti magistrati che fanno correttame­nte il proprio lavoro, impegnando­si sulle frontiere vere dell’impegno civile, contro le mafie, la corruzione, il terrorismo – si costruisco­no la vanità facile di una visibilità sproporzio­nata, e in troppi casi delle carriere anche politiche parallele, con la complicità di media e opinione pubblica, che danno a quanto detto dai magistrati, spesso, una spazio e un valore sproposita­to, come si trattasse di profezie oracolari e non, come in questo e in altri casi, di chiacchier­e da bar. E’ auspicabil­e un intervento del Csm e dell’Anm, se gli organi di rappresent­anza e di autogovern­o della magistratu­ra vogliono dimostrare di non essere solo i garanti di interessi corporativ­i, tutelando sempre i giudici e mai sanzionand­one. Anche se questo costerà il veder affibbiare al magistrato in questione una patina da «eroe» e magari una candidatur­a da parte di una politica capace di strumental­izzare anche il valore sacro della legge – garanzia di tutti – a fini di parte.

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