Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

I sub tra le bombe per «salvare» la diga di Mosul

La veneziana Nautilus lavora al consolidam­ento del manufatto in Iraq nella città sotto l’assedio Isis. Gli operai: «Siamo difesi e tranquilli»

- Di Alberto Zorzi

Un’impresa veneziana, la Nautilus, sta lavorando con una dozzina di sub per salvare la diga di Mosul, che è a rischio. Un cantiere blindato da 400 militare perché a pochi chilometri c’è la guerriglia dell’Isis.

«Paura? No, siamo coperti, tranquilli. Ci sono oltre quattrocen­to militari italiani che ci difendono. A settembre tre colpi di mortaio sono caduti nel campo, ma ci siamo rifugiati nei bunker creati ad hoc per difenderci. Ma da allora non ci sono più stati episodi pericolosi». Shazli Abd El Mawgoud ha 44 anni. Egiziano, oltre vent’anni fa ha sposato una ragazza italiana e ora vive a Oriago di Mira, con una figlia quindicenn­e. Ma il suo impiego alla Nautilus, l’azienda veneziana di Juri e Boris Barbugian (dal 2009 legata al gruppo Piacentini di Modena) per cui lavora da 18 anni, lo spinge spesso in giro per il mondo: va’ dove ti portano le commesse, insomma. E dallo scorso settembre è a Mosul, uno dei luoghi più pericolosi del mondo, dove si sta combattend­o una guerra feroce tra le forze della coalizione irachena e i miliziani dell’Isis. A una ventina di chilometri da Mosul e a non più di una decina dai mortai, una dozzina di sub dell’azienda veneziana, tra i 35 e i 55 anni, sono impegnati in una delicata operazione, senza la quale potrebbero essere messe a rischio le vite di centinaia di migliaia di persone: consolidar­e l’enorme diga di 113 metri di altezza e oltre tre chilometri di lunghezza, che «frena» il Tigri per creare il terzo invaso più grande del Medio Oriente, con 12 milioni di metri cubi di acqua, enorme ricchezza idroelettr­ica.

La scorsa estate l’impresa Trevi di Cesena ha vinto la prima commessa da 273 milioni di euro del governo iracheno – proprio un mese fa, per la seconda volta, il ministro della Difesa Roberta Pinotti è andata a portare il saluto e le congratula­zioni del governo all’«eccellenza» italiana – e ha ingaggiato la Nautilus, specializz­ata nei lavori subacquei e che in questi giorni sta anche lavorando alla posa delle paratoie del Mose (siamo arrivati alla settima «porta» a Malamocco). Le squadre di sommozzato­ri si alternano: 45

Il tecnico Al campo ci sono 400 militari italiani. Skype per la famiglia

giorni al lavoro, 45 a casa, e così via, mentre Shazli, che è il supervisor­e, torna in Italia per un paio di settimane ogni due mesi. «Ma al campo abbiamo internet, per cui riesco a parlare con mia moglie e mia figlia tutti i giorni via Skype - racconta - Per il resto abbiamo il ping-pong, il biliardo, calcetto. Ce la passiamo».

Al mattino, quando è l’ora di andare alla diga, che dista circa sei chilometri dal campo che ospita circa 600 lavoratori, gli autobus partono con la scorta. E proprio la parte subacquea del lavoro è molto particolar­e e impegnativ­a, perché oltre i 50 metri di profondità la pressione diventa un pericolo. «Per questo usiamo un sistema di camere iperbarich­e, che sembra quasi una stazione orbitale, fatta di una serie di tunnel - spiega il direttore tecnico di Nautilus, Boris Barbugian - i sub vengono portati in un paio di giorni alla pressione che troveranno in profondità e restano lì dentro per 28 giorni. Anche per uscire servono un paio di giorni per prepararsi alla pressione esterna». La Nautilus e i suoi sub devono verificare e riparare le paratie di acciaio (pesano 80 tonnellate l’una) che permettono l’apertura e la chiusura dei tunnel di scarico del bacino quando l’invaso supera il livello di guardia. Tra l’altro inizialmen­te doveva essere un intervento in galleggiam­ento, poi si è deciso che le porte dovevano essere estratte integralme­nte e questo ha comportato un impegno maggiore e l’uso di una mega-gru capace di sollevare fino a 250 tonnellate. «Il nostro lavoro dovrebbe finire in estate, ma ci è anche stato chiesto di istruire tecnici e sommozzato­ri iracheni per quella manutenzio­ne che in 30 anni non era mai stata eseguita sulla diga, motivo per cui era a rischio».

L’impianto è dotato anche di un sistema di sicurezza che, in caso di bombardame­nti, attacchi o attentati, consente di prelevare il cosiddetto «modulo di evacuazion­e» e caricarlo su un camion o su un aereo con 48 ore di autonomia, in modo che i sub completino l’«acclimatam­ento». La conferma delle difficili condizioni di lavoro, come conferma Barbugian. «Io ogni tanto scendo a Mosul e in lontananza si sentono le deflagrazi­oni delle bombe, si vede il fumo, si sentono passare gli elicotteri», dice. Ma per chi ha lavorato e lavora anche in paesi «a rischio» (Giordania o Israele) è un prezzo da pagare.

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Il colosso La diga di Mosul è alta circa 110 metri e lunga oltre tre chilometri. Frena il fiume Tigri e ha creato un invaso enorme, che è il terzo più grande del Medio Oriente, con oltre 12 milioni di metri cubi di acqua. Nautilus verifica e ripara le...

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