Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
IL PARADOSSO DELLA TASSAZIONE
Sembra che ogni tanto, quasi per scherzo, il legislatore abbia inserito nell’ordinamento giuridico disposizioni singolari e maldestre. Disposizioni involute, tortuose, che quasi si burlano degli operatori. Sono regole da prendere con le pinze e da maneggiare sempre con estrema attenzione, anche per evitare di prendere fischi per fiaschi. Nel raggruppamento di queste ultime disposizioni va a mio avviso collocato l’articolo 67 del testo unico delle imposte sui redditi. Sto parlando della norma la quale, stando alle notizie degli ultimi giorni, dovrebbe rappresentare il punto di appoggio per l’applicazione dell’IRPEF alle somme che i soci di alcune banche popolari del Veneto riceveranno nell’ambito di un accordo transattivo. La legge prevede infatti che costituiscano redditi diversi «i redditi derivanti dalla assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere». Si noti la particolare struttura dell’articolo: per individuare il reddito rilevante ai fini IRPEF (il «reddito diverso», per l’appunto) si deve accertare l’esistenza di un altro reddito la cui scaturigine sia rappresentata dall’assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere. La disposizione è incentrata su di uno schema circolare, quasi tautologico. Ma è una disposizione perfettamente piegata sul contesto economico nel quale versa il contribuente. Nel diritto, come del resto nella vita, le parole hanno un peso. Quella disposizione non significa che le somme in qualsiasi modo incamerate dal contribuente sulla base dell’assunzione di un particolare obbligo giuridico costituiscono reddito rilevante ai fini IRPEF. Significa, al contrario, che i «redditi» derivanti dall’assunzione dei citati obblighi sono rilevanti ai fini dell’imposizione. Serve dunque, a monte, la prova dell’esistenza di un «reddito»: è questo l’elemento indefettibile della fattispecie. Orbene, il reddito è un concetto economico prima che giuridico, che esprime una situazione di concreto arricchimento del contribuente. C’è un qualcosa in più rispetto a quanto il contribuente possedeva all’inizio del periodo di tempo che viene preso in considerazione. Il reddito è «ricchezza nuova». Si configura pertanto un reddito quando il contribuente ha incrementato la propria ricchezza rispetto allo stock esistente all’inizio del periodo d’imposta. Questo stock è il patrimonio iniziale. Il contribuente dispone di un patrimonio, lo mette a frutto e produce, attraverso la sua attività o attraverso isolate operazioni, un reddito.
Chi perde il contatto con lo schema qui rapidamente esposto è destinato ad intercettare un reddito ogniqualvolta si verifichi il pagamento di una somma di denaro. Quale «reddito» hanno dunque realizzato le persone che hanno investito i propri risparmi nelle partecipazioni delle banche popolari venete? Qual è la nuova ricchezza di coloro i quali, avendo investito, ad esempio, l’importo di 100, si trovano a disporre, oggi, mediante un atto di transazione, di una cifra pare a 15? Non serve essere un giurista per rispondere. Le partecipazioni societarie rappresentano il patrimonio iniziale (100). Le stesse partecipazioni societarie posso generare redditi sotto forma di remunerazioni (dividendi) o sotto forma di differenziali tra prezzo di vendita e costo di acquisto (plusvalenze). Ma la perdita di valore delle partecipazioni, parzialmente reintegrata attraverso la transazione, è soltanto l’espressione di un minor patrimonio rispetto a quello iniziale. Del reddito non v’è nemmeno l’ombra. C’è soltanto una somma di denaro incamerata dall’investitore in una situazione di gravi perdite patrimoniali. Non serve scomodare i concetti di «indennizzo», di «risarcimento» o di «danno emergente». Non serve ragionare in modo approfondito sulle ragioni dell’accordo tra le banche e gli investitori. La riflessione va riportata sul piano del diritto tributario e, dunque, sul piano della tassazione di una ricchezza incrementale rispetto a quella iniziale. Le banche diranno di aver voluto la transazione per evitare l’alea del processo. Gli investitori diranno di aver accettato per recuperare un po’ del capitale investito, rinunciando alla lite. C’è anche l’assunzione di un obbligo di non fare. Ma qui l’art. 67 del Tuir non può essere applicato perché, pur a fronte dell’assunzione del suddetto obbligo, manca, per l’appunto, il reddito. Non si può tassare con l’IRPEF chi è più povero rispetto al momento in cui l’investimento è stato effettuato e non si può collegare la nozione di reddito ad una mera movimentazione finanziaria, senza considerare il contesto.
Questo, a mio modo di vedere, è il significato dell’art. 67 del Tuir. Tutto il resto fa parte del formalismo, del funambolismo interpretativo o, se si vuole, della creazione di redditi a tavolino e in verità inesistenti.
*Professore ordinario di Diritto tributario nell’Università di Padova