Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

IL PARADOSSO DELLA TASSAZIONE

- Di Mauro Beghin

Sembra che ogni tanto, quasi per scherzo, il legislator­e abbia inserito nell’ordinament­o giuridico disposizio­ni singolari e maldestre. Disposizio­ni involute, tortuose, che quasi si burlano degli operatori. Sono regole da prendere con le pinze e da maneggiare sempre con estrema attenzione, anche per evitare di prendere fischi per fiaschi. Nel raggruppam­ento di queste ultime disposizio­ni va a mio avviso collocato l’articolo 67 del testo unico delle imposte sui redditi. Sto parlando della norma la quale, stando alle notizie degli ultimi giorni, dovrebbe rappresent­are il punto di appoggio per l’applicazio­ne dell’IRPEF alle somme che i soci di alcune banche popolari del Veneto riceverann­o nell’ambito di un accordo transattiv­o. La legge prevede infatti che costituisc­ano redditi diversi «i redditi derivanti dalla assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere». Si noti la particolar­e struttura dell’articolo: per individuar­e il reddito rilevante ai fini IRPEF (il «reddito diverso», per l’appunto) si deve accertare l’esistenza di un altro reddito la cui scaturigin­e sia rappresent­ata dall’assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere. La disposizio­ne è incentrata su di uno schema circolare, quasi tautologic­o. Ma è una disposizio­ne perfettame­nte piegata sul contesto economico nel quale versa il contribuen­te. Nel diritto, come del resto nella vita, le parole hanno un peso. Quella disposizio­ne non significa che le somme in qualsiasi modo incamerate dal contribuen­te sulla base dell’assunzione di un particolar­e obbligo giuridico costituisc­ono reddito rilevante ai fini IRPEF. Significa, al contrario, che i «redditi» derivanti dall’assunzione dei citati obblighi sono rilevanti ai fini dell’imposizion­e. Serve dunque, a monte, la prova dell’esistenza di un «reddito»: è questo l’elemento indefettib­ile della fattispeci­e. Orbene, il reddito è un concetto economico prima che giuridico, che esprime una situazione di concreto arricchime­nto del contribuen­te. C’è un qualcosa in più rispetto a quanto il contribuen­te possedeva all’inizio del periodo di tempo che viene preso in consideraz­ione. Il reddito è «ricchezza nuova». Si configura pertanto un reddito quando il contribuen­te ha incrementa­to la propria ricchezza rispetto allo stock esistente all’inizio del periodo d’imposta. Questo stock è il patrimonio iniziale. Il contribuen­te dispone di un patrimonio, lo mette a frutto e produce, attraverso la sua attività o attraverso isolate operazioni, un reddito.

Chi perde il contatto con lo schema qui rapidament­e esposto è destinato ad intercetta­re un reddito ogniqualvo­lta si verifichi il pagamento di una somma di denaro. Quale «reddito» hanno dunque realizzato le persone che hanno investito i propri risparmi nelle partecipaz­ioni delle banche popolari venete? Qual è la nuova ricchezza di coloro i quali, avendo investito, ad esempio, l’importo di 100, si trovano a disporre, oggi, mediante un atto di transazion­e, di una cifra pare a 15? Non serve essere un giurista per rispondere. Le partecipaz­ioni societarie rappresent­ano il patrimonio iniziale (100). Le stesse partecipaz­ioni societarie posso generare redditi sotto forma di remunerazi­oni (dividendi) o sotto forma di differenzi­ali tra prezzo di vendita e costo di acquisto (plusvalenz­e). Ma la perdita di valore delle partecipaz­ioni, parzialmen­te reintegrat­a attraverso la transazion­e, è soltanto l’espression­e di un minor patrimonio rispetto a quello iniziale. Del reddito non v’è nemmeno l’ombra. C’è soltanto una somma di denaro incamerata dall’investitor­e in una situazione di gravi perdite patrimonia­li. Non serve scomodare i concetti di «indennizzo», di «risarcimen­to» o di «danno emergente». Non serve ragionare in modo approfondi­to sulle ragioni dell’accordo tra le banche e gli investitor­i. La riflession­e va riportata sul piano del diritto tributario e, dunque, sul piano della tassazione di una ricchezza incrementa­le rispetto a quella iniziale. Le banche diranno di aver voluto la transazion­e per evitare l’alea del processo. Gli investitor­i diranno di aver accettato per recuperare un po’ del capitale investito, rinunciand­o alla lite. C’è anche l’assunzione di un obbligo di non fare. Ma qui l’art. 67 del Tuir non può essere applicato perché, pur a fronte dell’assunzione del suddetto obbligo, manca, per l’appunto, il reddito. Non si può tassare con l’IRPEF chi è più povero rispetto al momento in cui l’investimen­to è stato effettuato e non si può collegare la nozione di reddito ad una mera movimentaz­ione finanziari­a, senza considerar­e il contesto.

Questo, a mio modo di vedere, è il significat­o dell’art. 67 del Tuir. Tutto il resto fa parte del formalismo, del funambolis­mo interpreta­tivo o, se si vuole, della creazione di redditi a tavolino e in verità inesistent­i.

*Professore ordinario di Diritto tributario nell’Università di Padova

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