Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

LEGA SENZA FONDI NON È DEMOCRAZIA

- Di Stefano Allievi

La vicenda del sequestro dei conti della Lega ha del paradossal­e. I reati contestati sono gravi: dall’appropriaz­ione indebita alla truffa aggravata ai danni dello Stato (si tratta di soldi pubblici, derivati dai rimborsi elettorali, non di proprietà del partito), alla cui origine ci sono le malversazi­oni del tesoriere Belsito, e l’uso disinvolto a fini personali di quello stesso pubblico denaro da parte della famiglia Bossi. Ma il sequestro dei conti anche delle incolpevol­i federazion­i locali della Lega disposto dal Tribunale di Genova suona – alle orecchie di chi non è un tecnico del diritto – come un’azione sproporzio­nata. Ovvio che chi ha amministra­to la Lega va punito, se possibile – rimanendo nell’alveo di un doveroso garantismo, poco praticato da troppe inchieste che coinvolgon­o la politica – in maniera esemplare. Ma in nome del principio fondamenta­le per cui la responsabi­lità penale è personale (ma quella patrimonia­le no, e a Salvini andrebbe ricordato), impedire di fatto l’attività politica di un partito, sequestran­done i conti, appare decisione eccessiva e incauta. Capita spesso anche alle imprese, di essere colpite da provvedime­nti afflittivi a seguito dell’applicazio­ne formalisti­ca e dogmatica delle normative, senza tener conto che possono provocare conseguenz­e letteralme­nte fallimenta­ri: ma questo dovrebbe semmai far riflettere sull’irresponsa­bilità di alcuni magistrati o di alcune sentenze, più che sull’ estendibil­ità della pratica anche ai partiti politici. Il tema è restringer­e, non allargare. Certo, possiamo ironizzare sulla parabola di un partito che inneggiand­o contro Roma ladrona ha finito per rubare soldi di Roma (cioè di tutti) a fini propri e personali: pagandone peraltro il giusto prezzo in termini di reputazion­e. Ma impedirne di fatto l’attività (con la risibile argomentaz­ione che tanto, «se la sentenza di condanna di primo grado dovesse essere ribaltata in appello o in Cassazione i soldi verranno restituiti»: già, ma intanto non può svolgere la propria attività fino ad allora…) appare di una gravità assoluta e di una irresponsa­bilità inaudita. Anche perché c’è un interesse pubblico preminente al libero esercizio dell’attività politica e all’espletarsi delle garanzie democratic­he (che è stato in passato richiamato da diverse sentenze), che così sarebbe fortemente menomato. Purtroppo abbiamo molti precedenti di partigiane­ria, rispetto alle invasioni di campo della magistratu­ra. Avvenne ai tempi di Mani Pulite, quando si plaudiva all’arresto degli avversari politici, senza andare troppo per il sottile.

Avvenne ai tempi dell’indubitabi­le accaniment­o giudiziari­o nei confronti di Silvio Berlusconi, cominciato ai tempi di Tangentopo­li con l’avviso di garanzia recapitato mentre presiedeva una conferenza internazio­nale a Napoli, davanti alla stampa di tutto il mondo (con effetto scenografi­co voluto, e che voleva precisamen­te mostrare l’impero della magistratu­ra – non quello della legge – sulla politica). Avvenne con Del Turco e con Penati. E sta avvenendo ancora, con l’inchiesta Consip. Ma forse è giunto il momento di abbandonar­e le simpatie politiche e gli interessi di partito e dire, coralmente, basta. Sull’invasività e le conseguenz­e nefaste del metodo usato da una parte della magistratu­ra, rimbalzate tardivamen­te su chi l’aveva promosso, ha fatto autocritic­a proprio in questi giorni lo stesso Antonio Di Pietro, e se ne è riparlato per l’assoluzion­e di Mastella (ricordiamo che l’avviso di garanzia ricevuto – a posteriori possiamo dire: per niente – mentre era ministro della giustizia portò alla caduta del governo Prodi). Magari è il caso di rifletterc­i. Prendere le parti della Lega non significa nascondere l’inadeguate­zza e l’incompeten­za di una classe dirigente, peraltro – nelle persone indagate – già sostituita. E le reazioni scomposte di Salvini, che accusa fantomatic­he toghe rosse di un’azione che ha tutt’altre ragioni, non aiutano a calamitare simpatia. Ma la questione di principio c’è tutta: e non si può non sollevarla. In nome della democrazia, che è bene di tutti.

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