Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Werner Bishof ai Tre Oci Uno sguardo sul mondo dalla Svizzera all’Indocina
Quel maledetto 1954, nel giro di pochi giorni, si porta via due grandi fotografi: prima Werner Bischof, precipitato in auto da una sentiero delle Ande peruviane e poi Robert Capa, saltato su una mina in Indocina. Ora, per una felice coincidenza, le loro opere sono esposte contemporaneamente a qualche chilometro di distanza.
Se infatti Bassano ha di recente inaugurato la raffinata retrospettiva su Capa ai Musei Civici, Venezia rende omaggio a Bischof con un’esposizione di ben 250 immagini (di cui 20 inedite tutte dedicate all’Italia), curata dal figlio Marco, alla Casa dei Tre Oci. L’esposizione, promossa da Fondazione Venezia e Civita Tre Venezie, copre i vent’anni di lavoro del grande fotografo svizzero, dal 1934 al 1954, il suo inquieto peregrinare in un mondo che immortala con un linguaggio tra arte e cronaca.
Lui e il gruppo Magnum sono i protagonisti dell’epoca d’oro del fotogiornalismo. Soprattutto nel dopoguerra, riviste come Life o Esquire vendono milioni di copie, commissionano lavori, scommettono sulla curiosità e il talento di freelance che attraversano le pieghe di miseria e violenza, euforia e rinascita di cui è increspato il mondo. La cifra è il neorealismo, che poi ognuno declina seguendo le proprie vene. Quelle di Werner Bischof ad esempio sono pittoriche. D’altra parte alla fotografia c’è arrivato per ripiego, non essendoci più posti liberi nei corsi d’arte.
Di quella sua passione, gli resterà «l’intuito per il momento decisivo, il gusto per la composizione, la capacità di cogliere l’imprevisto e di rendere la fotocamera invisibile», come sottolinea Denis Curti, direttore dei Tre Oci. Nel primo decennio si concentra sul paesaggio svizzero, quasi in contemplazione delle foreste di montagna. Tra il ‘45 e il ‘50 è in giro per l’Europa devastata e quello che esce dalla camera oscura, installata nel suo studio mobile, è un’umanità che vaga tra le macerie e comincia a ricostruire. Poi è la volta dell’Oriente: ne «Il cortile del santuario Meji» (1951) due persone camminano lente sotto una coltre di neve e tutto sembra immerso nel silenzio e gli alberi lunghissimi si aprono sotto una chioma che non li può proteggere.
Nella guerra di Corea si scontra con la fame di scoop delle riviste, che gli brucia la sua commossa e disperata prossimità alle vittime del conflitto. E poi l’India, il racconto di un popolo brulicante e stremato, ma non dissimile dagli operai immortalati negli Usa o nel volto indurito dei bambini scalzi e fieri «Sulla strada per Cuzco». Ma a quel punto è già il 1954.