Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

I soldi, l’identità, il futuro: il caso Veneto nell’urna

La sfida delle competenze e quella (impossibil­e) di trattenere le tasse. Serve una vera riforma

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Come fa uno Stato a concedere a «tutte» le Regioni un’autonomia che di fatto presuppone un saldo più robusto del portafogli­o interno, cioè più soldi? Perché, fuor di ipocrisia, il tema è quello dei soldi. E siccome la torta del bilancio nazionale è sempre la stessa, spartire diversamen­te presuppone – per il principio dei vasi comunicant­i - scelte sanguinose e impopolari. Cioè premiare una o più regioni rispetto ad altre. Cosa che nessun governo né di centrosini­stra né di centrodest­ra ha mai fatto e farebbe, perché dovrebbe rinunciare al consenso dei territori che ricevono una parte inferiore di torta. Alla quale accedono anche (e soprattutt­o) le Regioni a statuto speciale. Che, per lo stesso motivo – il consenso – nessuno si sognerebbe di toccare, sebbene siano ormai percepite come un anacronism­o e indicate come fonte di dumping interno dagli stessi governator­i di Veneto e Lombardia.

Allora che si fa? E’ giusto che le regioni virtuose pretendano pur nell’essere più ricche forme di trattament­o compatibil­i con il loro profilo etico-economico, seppur in un regime di regionalis­mo solidale? Sì, è giusto. Ma il dubbio che sorge è se il referendum lombardove­neto possa arrivare ad ottenere non qualcosa di effettivam­ente raggiungib­ile ma una «posta» impossibil­e. Per cui, mettendo in testa l’assunto finale del nostro ragionamen­to, ci chiediamo se nell’impasse di una politica che non «può» o non «vuole» perdere consenso, l’unica soluzione ipotizzabi­le non sia un’altra: una vera e seria riforma costituzio­nale in chiave federale dove alla base di tutto ci siano merito, responsabi­lità e solidariet­à.

Una riforma naturalmen­te coraggiosa, che parta magari dal totem dei costi standard (un pasto per un paziente all’ospedale, per esemplific­are, non può costare sei euro al Nord e un tot di volte in più al Sud) e dalla consapevol­ezza che al netto della solidariet­à una regione non possa scialare senza la prospettiv­a di poter fallire. Un progetto, questo, accantonat­o negli ultimi anni dalla centralizz­azione delle risorse dettata dalla crisi (governo Monti) oltre che per gli scandali di qualche regione. E del resto mai attuato, a riprova di quel che si diceva, né dal centrodest­ra né dal centrosini­stra né tantomeno da un fronte istituzion­ale unito che quando c’è da lavorare per le regole base del Paese anziché per le botteghe di partito non ne fa mai una di giusta (vedi l’ultima improbabil­e legge elettorale). Il centrodest­ra – che a parole ha preso il campo del federalism­o - non ha partorito alcunché pur avendo avuto per anni il governo del paese da Bolzano a Caltanisse­tta; mentre il centrosini­stra ha varato il famoso «Titolo quinto» della Costituzio­ne, tentativo di decentrame­nto arrivato quasi subito ai titoli di coda con esiti per alcuni aspetti anche dannosi vista la sovrapposi­zione delle competenze fra Stato e Regioni e l’aumento della spesa con riverbero sul debito pubblico.

I referendum sull’autonomia che si tengono oggi in Veneto e Lombardia arrivano in un momento in cui la spinta autonomist­a è tornata al centro della scena. Al di là dei fermenti anche traumatici delle piccole patrie d’Europa (Catalogna, Scozia, Belgio) sembra che di fronte alla complessit­à e alle ricadute della globalizza­zione l’unico verbo sia diventato secedere. Intere Regioni e Comuni: l’unica soluzione invocata è la separazion­e. Centrale, sotto questo aspetto, un redivivo e pronunciat­o spirito identitari­o non solo frutto della storia dei singoli territori, ma di quel complesso mix, appunto, di crisi da globalizza­zione e di difficoltà a far coesistere l’idea stessa di nazione e quella di un’Europa in grado di affrontare le sfide continenta­li. Esito ineludibil­e per quanto messo a repentagli­o dagli errori che la stessa Europa ha compiuto e continua a compiere (dal nodo immigrazio­ne alle sperequazi­oni legislativ­e tra i vari Paesi).

Ma sarebbe semplicist­ico liquidare questa forza centrifuga come vuota rivendicaz­ione e «avido malessere». Se giusta è la preoccupaz­ione degli Stati nazionali di tenere insieme il quadro istituzion­ale interno ed esterno (l’Europa), sbagliato è non cogliere i segnali di intere comunità. Nello specifico, se per anni abbiamo parlato di «questione meridional­e», al di là delle spinte separatist­e radicali pericolose e prive di futuro, esiste anche una «questione settentrio­nale». Legata spesso alla mancanza o alla lentezza di risposte alle sollecitaz­ioni, ad esempio, di un mondo produttivo che al netto delle lacune della sua classe dirigente si porta appresso uno storico di pressione fiscale, burocrazia, giustizia e pubblica amministra­zione «incrostati». Il fatto che tutte le categorie economiche venete – nessuna esclusa – si siano schierate per il sì al referendum odierno, è la dimostrazi­one che «un problema» esiste e va affrontato. Pur nella consapevol­ezza che il mondo imprendito­riale, forte soprattutt­o nelle città-metropoli fat-

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