Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

I tre anni del Jobs Act in Veneto «Cresce la qualità del lavoro»

Il confronto 2015-2017, oggi le assunzioni sono quasi 40mila in più. I nodi e le criticità Il ministro Poletti: «La chiave resta la crescita»

- Gianni Favero

A quasi tre anni dall’avvio di quella grande manovra di sostegno all’occupazion­e concepita dall’allora governo Renzi e indicata genericame­nte come «Jobs Act», a guardare i numeri veneti il risultato si può dire abbastanza vicino al bersaglio. La maggior parte degli osservator­i, sia sul fronte sindacale che su quelli datoriali e istituzion­ali, concorda nel ritenere che l’obiettivo primo, cioè la stabilizza­zione di una platea di lavoratori sparpaglia­ta in un precariato spesso ai confini con l’abusivismo, sia stato conseguito.

Su come si siano mosse le curve dell’occupazion­e regionale esistono dati affidabili e non contestati, in prima battuta quelli dell’agenzia regionale Veneto Lavoro e quindi altri riconducib­ili all’Istat oppure, infine, ai diversi centri studi delle varie organizzaz­ioni.

Per iniziare con i numeri di Veneto Lavoro occorre innanzitut­to accettare il fatto che l’osservazio­ne di un sistema tanto complesso non può essere condotta solo a colpi di calcolatri­ce. In un mondo ideale le dinamiche del lavoro si misurano normalment­e facendo la differenza fra il numero di quanti, in un certo arco di tempo, sono stati assunti e quanti, invece, hanno lasciato il loro impiego.

Scorrendo l’ultimo rapporto «La Bussola», pubblicato la scorsa settimana ed aggiornata al terzo trimestre, non c’è dubbio che fra il 2014 ed oggi il saldo appaia notevolmen­te migliorato. Al 30 settembre di tre anni fa, ad esempio, cioè nel penultimo trimestre prima dell’introduzio­ne del Jobs Act, le cessazioni relative ai dodici mesi precedenti (il cosiddetto «anno mobile») erano state superiori ai nuovi contratti per 2.100 unità, cioè c’era una perdita di posizioni. Oggi, al contrario, le assunzioni sono 39.400 più delle interruzio­ni dei rapporti e numeri simili, con scostament­i di più o meno 5 mila unità, si intercetta­no in tutti i trimestri precedenti fino alla fine del 2015. Il primo dei limiti della pura aritmetica è però quello di non contemplar­e la diversità fra le categorie di assunzioni. Soprattutt­o, ed è qui che va posta la grande linea di divisione, fra gli ingressi in organico in pianta stabile e quelli a tempo determinat­o.

È vero che storicamen­te nel sistema produttivo veneto i rapporti di lavoro a termine sono l’anticamera di un legame definitivo con l’impresa ma dire con precisione quante volte questo sia avvenuto negli ultimi tre anni è impossibil­e. Probabilme­nte, si può sostenere, molto più di frequente che in precedenza, dato che era questo uno degli obiettivi delle decontribu­zioni Inps introdotte con la legge finanziari­a del 2016.

Sia assumere un nuovo addetto a tempo indetermin­ato sia trasformar­e un lavoratore a termine in un dipendente stabilizza­to, va ricordato, permetteva al datore di lavoro di non versare contributi previdenzi­ali fino a 8.060 euro per i tre anni successivi.

Un bonus da 24 mila euro, insomma, che a spanne significav­a spendere per un lavoratore un anno in meno su tre. Una successiva obiezione, sempre scorrendo il rapporto, può sorgere quando alla data di oggi si osserva ancora un’accelerazi­one dei contratti a scadenza e una diminuzion­e di quelli nuovi a tempo indetermin­ato. Negli ultimi 12 mesi i tempi determinat­i sono saliti a 413 mila dai 314 mila conteggiat­i un anno fa mentre i contratti definitivi scendono a 95 mila dai 113 mila che erano.

L’«indetermin­ato», insomma, sembra aver perso l’appeal del 2015. Ma le possibili spiegazion­i ci sono. L’incentivo in termini di decontribu­zioni Inps (nella sostanza quello che ha davvero messo il turbo alle assunzioni) già nella finanziari­a dell’anno dopo era stato attenuato. Per quanto riguarda i contratti a termine, poi, va tenuto presente che la soppressio­ne di voucher dello scorso marzo ha indotto i datori di lavoro soliti ad impiegare tale strumento per gli impieghi stagionali a «ripiegare» quasi sempre sul tempo determinat­o, e da qui l’ incremento dello stock. Dalle tabelle, infine, può sorgere un’altra perplessit­à collegata al numero delle cessazioni dei rapporti di lavoro, le quali hanno toccato le 244 mila nel terzo trimestre di quest’anno contro le 195 mila dello stesso periodo del 2016. Sono aumentati, dunque, quelli che hanno lasciato l’impiego ma, leggendo la composizio­ne di questa voce, si scopre che in essa ci sono 38.500 dimissioni.

Ossia persone che se ne sono andate volontaria­mente il che, per alcuni esperti della materia, riflette un fenomeno che si era perso di vista da parecchi anni, cioè quello del passaggio da un posto di lavoro all’altro innescata dalla (recente) fioritura di migliori opportunit­à sul territorio.

«In Veneto il Jobs Act ha funzionato moltissimo – sostiene indipenden­temente da tutto Onofrio Rota, segretario generale della Cisl regionale – e anche se, con la ripresa che si è verificata negli ultimi tempi, molte assunzioni sarebbero state effettuate pure senza incentivi, oggi i contratti a termine sarebbero molti di più». Pollice verso, invece, per il pari grado della Cgil, Cristian Ferrari. «Con l’esaurirsi delle decontribu­zioni del 2015 molti di quei neoassunti potrebbero presto essere licenziati».

Il ministro per il lavoro, Giuliano Poletti, da Verona ieri ha invitato a valutare il Jobs Act «in termini larghi dato che in esso non ci sono solo interventi per incrementa­re l’occupazion­e la cui dinamica è collegata a quella parallela dell’economia».

 Ferrari (Cgil) Ma con l’esaurirsi delle decontribu­z ioni molti di quei neoassunti potrebbero essere licenziati

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