Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
La Norimberga del ceto medio bancario
Gli ex potenti e il popolo dei «truffati». Tra rabbia, vergogna e rassegnazione
Anche la rabbia ha un suo punto di cottura oltre al quale non resta che la memoria offesa, è l’impasto più duro da sopire, una crosta di vergogna, rassegnazione e tigna dalla quale è definitivamente scappata anche la speranza di vederli più i soldi..
Anche la rabbia ha un suo punto di cottura oltre al quale non resta che la memoria offesa, è l’impasto più duro da sopire, una crosta di vergogna, rassegnazione e tigna dalla quale è definitivamente scappata anche la speranza di vederli più i soldi bruciati nel forno della Popolare di Vicenza. Ieri, la folla dei creditori davanti al Tribunale di Vicenza era troppo quieta, silenziosa e ostile, troppo grande per un normale processo. Questa è infatti la Norimberga del ceto dirigente bancario veneto, l’Aia dove si processano i Sorato e gli Zonin accusati di pulizia etnica ai danni del patrimonio del ceto medio veneto, loro due chiamati con i sodali a rispondere di genocidio economico, territorialmente applicato, scientemente concepito e cinicamente portato a termine. Qualcosa del genere si è visto solo nei processi per disastro colposo, ma in chiave minore.
Il presidente del Tribunale vicentino si aspettava qualcosa del genere, lunedì diceva che tutte le misure erano state prese – sicurezza, ordinato disbrigo, afflusso controllato ieri la realtà ha sorpreso anche lui: alle 9 c’era già gente, alle 9,30 la folla montava, alle 10 – ora di apertura del procedimento – era un delirio di avvocati e assistiti che formavano una sola unica onda d’urto. Dei tre filtri previsti il primo all’ingresso era impotente, il secondo sulla scala faceva da tappo, il terzo e ultimo nel seminterrato costituiva un’unica colla fatta di trolley e umani sudati, un ingorgo di fascicoli e cartelle stampate in undici copie che sventolavano alte tra gli smadonnamenti dei legali con i cancellieri affannati a raccoglierle da ognuno di loro e smistarle in altrettante ceste (costituzione di parte civile si chiama, due per il Pm, una per il Gup, le altre otto per ognuno degli otto accusati) e tutto in un modo che fissava l’irriformabile natura della giustizia italiana, fatta a mano e strettamente imparentata con il facchinaggio postale. Persino il Bacchiglione, più sotto, mormorava, gonfio di rabbia anche lui. Era la festa della fiducia tradita, la corsa all’indennizzo impossibile, con avvocati e assistenti, i danneggiati e gli agit prop delle associazioni di tutela, la stampa e i carabinieri, tutti insieme al gran teatro della legge trasformato in rito apotropaico. Sopra tutti, come un Falstaff verdiano, l’avvocato Cesare Dal Maso giganteggiava: «Chi è avvocato alzi la mano», gridava. Prima i legali, poi gli altri. Inutile, sembrava la tolda del Titanic, con in più la consapevolezza che le scialuppe di salvataggio non bastano, i fondi stanziati per gli indennizzi sono irrisori e non è nemmeno sufficiente arrivare prima per salvarsi.
All’udienza preliminare nella quale un giudice decide se il processo s’ha da fare, se gli imputati sono davvero imputabili e chi, eventualmente, ha il diritto di essere indennizzato (salvato) - come in tutti i grandi crimini politici, chi ha sofferto di più siede accanto a chi ha patito di meno, i danneggiati virtuali assieme alle vittime reali, le persone fisiche con le persone giuridiche. Ancora più assenti degli imputati i complici ignoti, i fiancheggiatori e gli ignavi, i silenti e tutti i volonterosi esecutori del duo Zonin-Sorato. Che ci faceva la pensionata intortata per diecimila euro con l’industriale gabbato ma ancora in sella? Il pensionato che si dà del «bauco» e si vergogna con la Banca d’Italia che si pavoneggia (parte civile anch’essa), il Comune di Schio e quello di Vicenza, l’ingenuo correntista e la lontanissima Bce? (sì, pure la Banca Centrale Europea vanta un credito). Una sola di quelle cartelle che abbiamo visto finire nelle ceste – quella dell’ereditiera Gaia Folco – vale cento volte una qualsiasi delle altre: 23 milioni di euro chiede l’ereditiera mentre la signora Maddalena Reghedin di Schio si accontenterebbe di 50-60 mila euro, l’equivalente di 1.100 azioni. Il giudice dovrà sfrondare. Eppure sono tutte vittime della medesima pulizia etnica, tutte colpite da sterminio economico.
La signora di Schio si trova a disagio, con quelle azioni doveva ristrutturarsi la casa e lo ha fatto, ma ha lasciato il «buco»: «Chi mi ha messo gli infissi aspetta ancora 10 mila euro e io non li ho. Adesso la giustizia si fa viva con la promessa di un contentino, ma io non mi faccio illusioni, lo so che siamo sotto elezioni e, guarda caso, mi sento presa in giro un’altra volta». Non ce ne sarà per tutti, il molto andrà ai pochi, il poco ai tanti. E ’ quello che teme Elisabetta Gatto di Castelfranco, fiera e alta sui tacchi, una furia con il cappello: «Con la bad bank ci hanno seppelliti, quando si poteva ancora sequestrare il capo della procura Cappelleri ha detto che era troppo presto, quando non lo si poteva più ha detto che era troppo tardi. Sono da querela? Non mi fanno paura, io sono quella che ha avuto la Digos in casa per aver piantato le croci davanti alla villa di Zonin».
Dove non potè il digiuno potè la vergogna, come in questo conte Ugolino alla rovescia che risponde al nome di Luigi, ex fonditore di 84 anni di Trissino, uno che non ha mai detto e non dirà mai neanche alla moglie quanto gli ha sottratto la banca: «Dovevo capirlo che mi stavano fregando». Chi? «Sorato, quello insisteva troppo». E anche lui ha la sua teodicea, la spiegazione del male: «E’ la mafia, la più perfetta dittatura della sinistra politica. La Popolare poteva essere salvata, non l’hanno fatto a beneficio di Banca Intesa. Se Banca Intesa chiude i portoni chiude anche il paese. Ecco la dittatura che non si fa accorgere».