Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
La Grande Guerra Storie e uomini visti da Malaguti
«Prima dell’alba» del padovano Malaguti intreccia storie fino alla soglia degli anni Trenta
La ricorrenza centenaria della Grande Guerra ha riaperto il confronto sul significato che ebbe quello scontro, davvero «all’ultimo sangue», tra l’Europa delle democrazie e quell’altra millenaria degli imperi: il risultato fu certamente una «strage» terribile e dolorosa, che travolse un’intera generazione, ma definirla «inutile» o interpretarla come «la vera fine della civiltà europea» a me sembra semplicistico e poco utile a capire come effettivamente andarono le cose.
Nella prospettiva italiana, poi, questa lettura finisce per schiacciare la guerra nello scomodo e modesto ruolo di «causa» del fascismo, come già, col senno di poi, una ventina d’anni dopo la «vittoria», aveva fatto Emilio Lussu nel suo indimenticabile Un anno sull’Altipiano (1938), che della lotta antifascista, mentre si annunciava la nuova guerra, divenne strumento efficace e appassionante, ma certo della guerra non offriva una vera e propria «testimonianza».
Il padovano Paolo Malaguti costruisce il suo Prima dell’alba (Neri Pozza, pp. 302, 17 euro) fidando su questa lettura della storia, che inizia appunto con la guerra stessa e diventa sempre più drammatica fino alla rotta di Caporetto e alla gratuita violenza degli ufficiali contro la truppa, che a sua volta avrebbe scatenato un desiderio di vendetta maturato in segreto prima di trovare il modo di esprimersi.
I personaggi e le vicende del racconto si fondano largamente su vicende e figure reali: il generale Andrea Graziani, lo sguardo del quale «trasuda letteralmente il rigore più duro del comando», dopo Caporetto, venne nominato da Cadorna Ispettore generale del movimento di sgombero delle truppe dall’Isonzo al Piave e in quella veste, a Noventa Padovana, condannò a morte il 3 novembre 1917 l’artigliere Alessandro Ruffini «perché, sfilando davanti al boia -cioè a lui- lo aveva salutato tenendo la pipa, o il sigaro tra le labbra», ritenendolo responsabile di «indisciplina, sedizione, rivolta»; nel romanzo Ruffini diventa Baguzzi, ma la sorte resta identica.
La spropositata e disumana reazione del generale suscitò subito reazioni indignate, tanto che lui stesso cercò di nasconderla dando ordine «agli ufficiali della compagnia di Ruffini che, nel registro, mettessero pure che il soldato era morto per polmonite», senza tuttavia riuscire a insabbiare la vicenda, che negli anni successivi divenne uno scandalo pubblico «fomentato dai socialisti dell’Avanti», tanto che Graziani venne «messo prudentemente da parte», fino a essere poi recuperato dal fascismo ormai al potere, che lo nominò Luogotenente Generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
Il resto della storia raccontata da Malaguti è frutto di una ben articolata invenzione narrativa che si sviluppa lungo due percorsi paralleli: da un lato i giorni terribili e oscuri della guerra sino a Caporetto, dei quali è protagonista «il Vecio» Madera, che attraversa incolume tre anni di combattimenti prima che «il caso», che sparge «vita e morte sulle teste dei soldati», «il caso e nient’altro», non colpisca anche lui, che non sa «in base a quale ragionamento ha deciso di restare in truppa», sarà lui ad essere testimone dell’esecuzione; cadrà ferito sul Piave pochi mesi prima della vittoria, restando orrendamente mutilato, condannato ai margini della società civile dove matura il rancore contro chi lo ha usato e poi abbandonato. Dall’altro lato la vicenda di Graziani: il 27 febbraio 1931 il suo cadavere venne trovato ai piedi della ferrovia, caduto da un treno lungo la linea Prato-Firenze: le indagini non riescono a ricostruire la dinamica dell’incidente e il caso finirà archiviato senza colpevoli; il commissario Molossi, che pur intende la verità, se la terrà per sé, fino quando a raccontarcela non interverrà Malaguti, costruendo questo romanzo che, a parte i propositi sin troppo pedagogici e la rigida ideologia, si legge non senza emozione e curiosità.