Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
L’America pre-colombiana nella collezione di Ligabue
Da oggi, a Palazzo Loredan, apre l’esposizione sull’era pre-colombiana con gli oggetti preziosi della collezione Ligabue. Maschere, statue, monili, gioielli rari raccontano il fascino di un antico universo, poi «sradicato» dagli europei
Quando Francesco Cornaro, ambasciatore della Serenissima, vide i doni arrivati dal Messico per il re di Spagna, restò sbalordito dalla loro bellezza. Ammirò un idolo con uno scettro in mano scolpito in lamina d’oro e finemente cesellato con segni e figure. E poi pietre, utensili, monili di argento, ornamenti intessuti con maestria di lana, tela, piume. Scrisse al Doge: «In vero dimostra che in quelle parti esser persone d’ingegno».
Era il 1520. Trent’anni dopo, nella disputa di Valladolid, ci si sarebbe ancora accapigliati sulla natura dei nativi americani. «Ma quello stupore di fronte a tale «ingegno» era la prova inequivocabile dell’umanità degli altri», spiega Davide Dominici, uno dei massimi esperti delle culture amerindie.
Sono proprio quegli oggetti a raccontarci oggi «Il mondo che non c’era», come si intitola la mostra della Fondazione Ligabue (curata da Jacques Blazy) che si apre oggi (fino al 30 giugno) nelle sale di Palazzo Loredan a Venezia, l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Un corpus di manufatti raccolto in decenni di collezionismo e di esplorazioni da Giancarlo Ligabue. È stato negli anni ‘60 che l’imprenditore-paleontologo acquisì la sua prima maschera mesoamericana da un mercante d’arte inglese. Inti Ligabue, il figlio che ne ha raccolto il testimone, ha più di un motivo per sentirsi «emozionato», come ammette. Perché dopo Firenze e Napoli questa mostra raffinata arriva finalmente nella sua città. «Perché il progetto nasce come omaggio a mio padre e perché infine l’altra metà delle mie origini viene dalle valli di Tahuanaco», dice riferendosi alla madre boliviana, Sylvia.
Statuine di donne nude, giocatori della pelota, danzatori, lapidi, maschere, monili e gioielli, piatti e steli, tessuti e pendenti: la mostra ci porta indietro di molti secoli prima di Cristo, in un viaggio dal Messico al Costarica, dalla Colombia all’Ecuador. Nessun folclore, nessun retrogusto esotico.
«Ma il rigore di una ricerca», come sottolinea il presidente dell’Istituto Veneto, Gherardo Ortalli. Una ricerca che ridà vita e dignità a culture scomparse sotto il ferro e il fuoco, il vaiolo e il fanatismo religioso dispiegato dagli Europei fin dal loro sbarco. Bisognerà aspettare la fine del XIX secolo per cominciare a interrogarci sugli Olmechi, i Maya, i Tairona, i Nazca, i Mochica. Più che una scoperta e al di là di una conquista, l’incontro tra due mondi che non sapevano della reciproca esistenza fu uno choc. Racconta André Delpuech, a capo del Comitato Scientifico della Ligabue: «Gli spagnoli si chiedevano se gli indios avessero l’anima o non fossero che bestie; a loro volta i nativi si chiedevano se quei barbuti dentro armature e issati su quadrupedi fossero uomini o dei, se fossero vivi o morti e se si cibassero di oro, tanto ne erano assatanati». Forse l’unica vera eredità “india” rimasta iscritta nella cultura europea, fin dentro le nostre case, sono gli alimenti: mais, pomodori, patate, caffé, noccioline, zucca, avocado, ananas, mango, papaya. E il cacao, «il cibo per gli dei», di cui i nativi conoscevano 30 versioni con decine di infusioni con fiori, e che gli europei a lungo considerarono come qualcosa di peccaminoso. La parola civiltà, si sa, è piuttosto ambigua.