Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

UN COLPO AL TABÙ DEI PARTITI

- di Stefano Allievi

La sentenza sul ricorso presentato dall’attivista padovana Maria Elena Martinez, che si era ritrovata esclusa dalle «parlamenta­rie» indette dal Movimento 5 Stelle nonostante avesse regolarmen­te presentato la sua candidatur­a – senza ottenere alcuna spiegazion­e né prima né poi – è destinata a fare, se non storia, chiarezza. E trasparenz­a.

Più di quella evocata ma poco praticata dai partiti, Movimento 5 Stelle incluso. E al di là dello specifico caso e dello specifico partito. Perché mette il dito su una piaga aperta fin dall’approvazio­ne dell’articolo 49 della Costituzio­ne: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberament­e in partiti per concorrere con metodo democratic­o a determinar­e la politica nazionale».

La contraddiz­ione è servita: la politica ha bisogno dei partiti per essere democratic­a, ed essi sono lo strumento della democrazia parlamenta­re. Ma la democrazia interna ai partiti dov’è?

Non c’è, appunto: perché essi stessi hanno sempre rifiutato di normare, in qualsiasi modo, la propria vita interna.

Abbiamo la democrazia dei partiti, ma non la democrazia nei partiti. Tanto che negli anni si è assistito persino a indecorose commedie in cui i titolari di un nome e di un simbolo scappavano con la cassa o li vendevano al miglior offerente, per garantirsi un posto e una carriera.

Tornando al caso in questione, la sentenza è chiarissim­a: ha dato torto alla ricorrente, perché i partiti sono associazio­ni private, in cui decide il capo, e i pochi scelti dal capo, chi saranno i candidati. Ma almeno alcuni – di destra come di sinistra, da Fratelli d’Italia al Partito Democratic­o, passando per la Lega – celebrano congressi ed eleggono i propri leader: qualcuno, come il Pd, dando persino il voto agli elettori e ai simpatizza­nti. Altri non fanno nemmeno questo. Non ha mai nemmeno fatto finta di farlo Forza Italia, il primo vero partito personale di massa. Non l’hanno fatto i progressis­ti di Liberi e Uguali, che il leader l’hanno preso direttamen­te dalla seconda carica dello stato e si sono accontenta­ti di una assemblea.

Non l’ha mai fatto, però, nemmeno il Movimento 5 Stelle, che pure si pretende maggiormen­te innovatore su questo piano. In parte lo è stato davvero, aprendosi alle candidatur­e dal basso: ma il fatto che il numero di clic sia drammatica­mente basso, al punto da rendere risibile evocare il concetto alto ed ampio di democrazia, e soprattutt­o il fatto che in ultima istanza decida non si sa nemmeno chi (e l’oscurità è la massima prerogativ­a del potere), rende la questione posta dal giudice che ha esaminato il caso ancora più centrale e ricca di conseguenz­e. Perché, pur dicendo in sostanza che la leadership di un partito può fare quello che vuole (ma qui chi la rappresent­a? Di Maio? Grillo? Casaleggio?), e quindi nessuno può pretendere alcunché, tanto meno trasparenz­a, nota la «evidente distanza da canoni minimi di democrazia interna» dello statuto del M5S. Altro che «uno vale uno»!

Bene che il giudice si sia fermato lì, senza avanzare proposte: sarebbe pericoloso se la democrazia la imponesser­o i giudici. Bene però anche che si dica una parola di verità, in punta di diritto, sulla poca democrazia interna dei partiti. E bene che la si dica in specifico sul M5S: che da subito ha posto lodevolmen­te il problema della partecipaz­ione, anche con formule nuove, ma poi si è ritrovato a praticare non più democrazia, ma, paradossal­mente, meno – tutto è deciso dall’alto e persino da fuori (la Casaleggio è un organo esterno, seppure evidenteme­nte collegato – e una azienda con fini di lucro, per giunta).

Ma resta aperta una domanda che è un macigno per l’esistenza stessa della democrazia: è possibile che i partiti, che sono lo strumento per eccellenza della partecipaz­ione democratic­a, possano permetters­i di essere, nella loro vita interna, meno democratic­i di una bocciofila o di un consiglio parrocchia­le? Può il mezzo essere così palesement­e distante dal fine?

A questa domanda, la risposta non c’è ancora. Sull’onda dell’entusiasmo per le primarie, qualcuno aveva pensato di proporle per tutti. Poi anche il partito che le aveva introdotte, ha smesso di usarle, e la cosa è finita lì. Nessuno, pare, ha interesse a risollevar­e il problema. Che resta lì: una ferita aperta sulla democrazia.

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