Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Il caso Busetto fa scuola «Il Dna sulla collanina? Possibile contaminaz­ione»

- di Alberto Zorzi

VENEZIA Quella collanina è stata la «prova regina» che – anche dopo che sembrava essere stata scagionata dalla confession­e di un’altra persona, Susanna Lazzarini – ha convinto la Corte d’assise d’appello a condannarl­a all’ergastolo per l’omicidio di Lida Taffi Pamio, la 87enne massacrata nella sua casa di via Vespucci il 20 dicembre 2012. Monica Busetto, la 56enne infermiera che abitava sullo stesso pianerotto­lo, è infatti stata «incastrata» da quella catenina rotta che gli inquirenti della squadra mobile trovarono in un portagioie a casa sua: lei ha sempre detto che era un vecchio gioiello della sorella, ma per gli inquirenti era della signora Pamio, sotto il cui cadavere c’era una medagliett­a, anche perché tra le maglie furono trovate tracce del Dna.

La prossima tappa si giocherà in Corte di Cassazione, dopo il ricorso dei suoi legali Alessandro Doglioni e Stefano Busetto, secondo i quali in realtà quel Dna è frutto di una contaminaz­ione con altri reperti. Ora però questa tesi diventa oggetto di discussion­e giuridica, addirittur­a a livello mondiale: nei giorni scorsi è infatti stato pubblicato un articolo sulla rivista «Diritto penale contempora­neo» e a fine giugno se ne parlerà a un simposio internazio­nale a Hangzhou, in Cina.

A firmare lo studio sono stati tre studiosi: Franco Taroni, che insegna Criminolog­ia all’Università di Losanna, Paolo Garbolino, docente di Logica e Filosofia della scienza allo Iuav, e infine Silvia Bozza, ricercatri­ce di Statistica forense a Ca’ Foscari. Taroni, a dir la verità, è parte in causa nel processo, avendo firmato la consulenza tecnica su cui si basa il ricorso in Cassazione della difesa Busetto. Lo studio mette in dubbio la credibilit­à di quella prova regina, sulla base di un fatto ormai assodato: ovvero che la prima analisi genetica eseguita dalla dottoressa Luciana Caenazzo non aveva trovato sulla catenina alcuna traccia di Dna, mentre la verifica-bis nei laboratori della Polizia scientific­a di Roma aveva trovato una traccia minima. Una contraddiz­ione che, secondo gli esperti, «permette ragionevol­mente di non escludere una contaminaz­ione del reperto». «E’ una tesi possibile», affermano.E dunque rende la prova meno credibile di quanto abbiano fatto due corti d’assise. Anche perché Taroni cita ad esempio la legge svizzera, che sul punto è molto rigorosa.

La direttrice del laboratori­o, Daniela Scimmi, sentita nel corso del processo di primo grado, aveva escluso l’ipotesi di contaminaz­ioni. Si disse che era stata usata una tecnica più efficace. Ma i docenti scrivono che nella relazione dell’analisi c’è qualche incongruen­za di orario, che mancano i test di controllo che certifichi­no l’affidabili­tà del laboratori­o e che i reperti prima di quello furono la lama e il manico del coltello che uccise Lida Pamio, molto sporchi di sangue. Non si è mai capito, poi, se quel Dna fosse sangue oppure altri tessuti: solo in questo secondo caso ci sarebbe la certezza dell’assenza di contaminaz­ione.

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Arresto in aula Monica Busetto torna in carcere dopo la condanna all’ergastolo in appello

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