Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
«Tutte le poesie» di Bandini, la vita e l’eterna primavera
Esce «Tutte le poesie» dello scrittore vicentino. Il tema dell’infanzia che si oppone alla prudenza della maturità. La produzione in latino e in dialetto
Fernando Bandini è stato poeta parsimonioso di sé, come se la scioltezza di un dettato limpido e semplice agisse a freno della sua vocazione «narrativa», piuttosto che liberarla in un canto sereno: oltre l’evidenza delle persone e degli avvenimenti era ogni volta necessario un dover essere, un «impegno» a fare chiarezza, se non addirittura giustizia.
La traccia autobiografica è sempre riconoscibile, sia nei luoghi, tutti raccolti dentro e intorno a Vicenza, al più nascosta dietro il suo palindromo - Azneciv -, sia nei tempi, che cominciano inevitabilmente con la Resistenza e la guerra partigiana e si sviluppano negli anni Cinquanta, assieme a tanti amici tra cui Neri Pozza, con il circolo culturale degli Amici del Calibano nel corpo a corpo con la mal sofferta tradizione clericale e in altre numerose civili battaglie, sia nelle persone, che sono presenze «care» sulle quali si riversa trepidante l’emozione degli affetti e dei sentimenti, e ben si coniuga col rigore di una scrittura sapientemente controllata sulla più nobile tradizione lirica nostrana, da Petrarca a Leopardi, a Pascoli, senza per altro restarne prigioniero, forte della coscienza «critica» dello studioso - filologo e interprete - che è stato per tutta la vita.
Aveva cominciato con studi modesti, diplomandosi maestro elementare e poi esercitando in classe il suo ruolo pedagogico con autentico trasporto verso gli scolari bambini cui resterà sempre fedele, riconoscendo in loro la fervida ed energica testimonianza di una «trascorsa» primavera, «quando ogni cosa era/ piena di senso e amica», tempo ormai smarrito, al quale, dunque, si torna solo trascinati dalla nostalgia e dal suo struggimento.
Bandini ha vissuto di una lunga vita tutte le stagioni (1931-2013), di ciascuna assaporando l’intensa ricchezza e, quando venne il tempo dei bilanci, seppe difendersi dagli eccessi della malinconia, riconoscendo al centro della sua vocazione poetica la presenza costante della primavera, sottolineando la forza dirompente della natura che si risveglia, il suo slancio vitale, ma anche il vincolo che la lega al principio originario, all’infanzia, opponendole alla prudenza della maturità, all’ordine imposto nel mondo civile a prezzo di innumerevoli rinunce.
«Quello che veramente conta nella poesia è l’aver qualcosa da dire», scriveva nel 1975 a proposito di Giovanni Giudici, restando fedele a questo impegno, che aveva fatto proprio, anche quando la «cosa» nel corso degli anni smagriva quasi sfuggendo alla sua presa e perdendo molta della sua concreta materialità, continuando tuttavia a vibrare nei versi come musica armoniosa, come resistente ancoraggio nell’esperienza.
Era l’ultimo dei suoi libri quel Dietro i cancelli e altrove (2007), che pur rinviava a quegli altri cancelli che «hanno aperto» a primavera per far posto ai velosolex e ai mandorli che aprono il primo dei sui libri, Memoria del futuro (1969), e attraverso tanti libri e plaquettes resiste confortante la fedeltà a un mondo e a uno «stile», che caratterizza, c’è ne accorgiamo definitivamente ora davanti a Tutte le poesie (Oscar baobab Mondadori, pp. LIV-018), amorevolmente e pazientemente curate da Rodolfo Zucco con introduzione di Gian Luigi Beccaria e biografia di Lorenzo Renzi, una linearità cui non viene mai meno, neppure quando «verso un Altrove ignoto spesso/ si dirigono inquieti i miei pensieri».
Negli anni arricchì la propria poesia ricorrendo a lingue prossime e diverse, dapprima il latino, con insolita freschezza che non faceva rimpiangere quello di Pascoli, e poi un dialetto, al solito fatto suo anche a prezzo di rinunciare a ogni intonazione popolare, piuttosto teso a far risuonare i lati oscuri della psiche con la lingua della memoria infantile, e ancora amava tradurre come mostrano tanti suoi lavori tra i quali spiccano per intima consonanza le canzoni provenzali di Arnaut Daniel.
Concluse lucidamente riflettendo sul fatto che «giorno per giorno qualche nome si eclissa/ dalla mia lingua e dalla mia memoria/... Oh, trafelate corse per riprenderne/ possesso!».