Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

IL CONSENSO A CHI NON RISOLVE

- di Stefano Allievi

L’avete notato anche voi? Fino al giorno delle elezioni le discussion­i politiche, e le pagine dei giornali, erano occupate ossessivam­ente dai problemi collegati all’immigrazio­ne. I partiti – i partiti che hanno vinto in particolar­e – erano una fonte continua di dichiarazi­oni roboanti, slogan aggressivi, soluzioni definitive o spacciate come tali. E i leader non si risparmiav­ano prese di posizione forti e denunce radicali. Dal giorno delle elezioni, invece, più nulla. Le priorità sono tutt’altre, gli interessi dei leader anche, i problemi di cui si parla pure. L’immigrazio­ne è scomparsa dai radar della politica e dall’orizzonte mediatico, nonostante le notizie, anche di rilievo, non manchino (le stesse che, prima delle elezioni, avrebbero avuto ben altro risalto: i tweet dei politici, le prime pagine dei giornali, intere trasmissio­ni in prima serata, i commenti sui social). Eppure proprio questo argomento è stato decisivo nello spostare una grande massa di voti. Come mai non se ne parla più? In realtà no, non l’avevate notato. Non è facile accorgersi di essere manipolati, e non è piacevole ammetterlo. Ma il fatto che sia successo è la prova provata che il pensiero del centro-destra ha vinto culturalme­nte. E quello che all’ingrosso possiamo chiamare progressis­ta (ma anche il solidarism­o cattolico) ha perso. E la prova non sta nelle soluzioni proposte e che trovano consenso.

Ma precisamen­te nel fatto che l’interesse sta nel sollevare il problema, non nel trovare soluzioni. Perché quello che succede, in realtà, è che chi maggiormen­te è riuscito a canalizzar­e le frustrazio­ni e le proteste, anche fondate, dell’elettorato rispetto alla gestione del fenomeno migratorio, ha interesse a che il problema persista, perché precisamen­te da quello ricava il consenso elettorale: se i problemi si risolvesse­ro, perderebbe­ro una comoda e facile rendita di posizione. Meglio una dichiarazi­one altisonant­e spesso, e un atto simbolico di repression­e ogni tanto (tanto il capro espiatorio prescelto non vota), anche se serve solo a far parlare di sé e non risolve nulla, che delle soluzioni pragmatich­e trovate in silenzio, cercando di riformare i meccanismi che portano alle migrazioni così come avvengono oggi.

Me ne sto accorgendo, in maniera assolutame­nte evidente, portando in giro lo spettacolo che ho tratto dal mio libro «Immigrazio­ne. Cambiare tutto». E nei dibattiti che faccio, a seguire, con chi viene ad assistere. Persone spesso piene più di dubbi che di certezze, o con certezze una volta solide e oggi incrinate dalla sensazione – che è un dato di fatto – di essere divenuti minoranza culturale. Era lo scopo con cui ho scritto il libro, del resto: fare miei i dubbi, le paure, le insicurezz­e, le polemiche, cercando di introietta­rli prima, e di trovare qualche risposta percorribi­le, poi.

Quello che emerge, con impression­ante evidenza, è che, ormai da anni – ma in questa campagna elettorale con un salto qualitativ­o e quantitati­vo assai significat­ivo – l’egemonia culturale è di chi non vuole nemmeno occuparsi del problema, o lo vuole fare (o dice di volerlo fare, ma poi non lo fa, perché non è così semplice come dirlo) per le spicce, con soluzioni grossolane e prese di posizione verbalment­e dure, tanto facili da evocare sotto forma di slogan quanto difficili da praticare sotto forma di politiche. Sono costoro che marciano compatti all’attacco. Mentre è la cultura di chi cerca di risolvere i problemi, con meno violenza verbale è più comprensio­ne delle molte variabili in gioco, che è sulla difensiva, e dunque perdente.

Gli araldi delle soluzioni facili dovrebbero essere messi alla prova della gestione reale dei problemi. Ma non accadrà, perché non mobilitano competenze, e perché, come detto, guadagnano consenso dal fatto che il problema esista, e si possa darne la colpa a qualcun altro, non dal fatto che sia risolto. Gli altri dovrebbero essere confrontat­i più spesso con le contraddiz­ioni dei fenomeni e le insicurezz­e che generano: ma tendono a evitarlo, perché temono che tolga loro quel poco di consenso rimasto; e in fondo anche per loro è comodo accusare sempliceme­nte gli altri di xenofobia o di razzismo – anche questo un capro espiatorio, dopo tutto. E così, in questa doppia spirale, si perde il senso della realtà, e restano solo gli slogan. Che però, dopo le elezioni, non servono più. Si spiega così il silenzio improvviso calato sul tema. Fino alla vigilia della prossima tornata elettorale. Che non è lontana. E che si giocherà ancora sugli stessi temi. Senza che un solo problema sia stato risolto.

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