Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Solitudine, traumi, vuoto Dentro la mente dei suicidi

IL VOLUME Lo psichiatra Diego De Leo indaga tra lutti e disperazio­ne attraverso le storie di chi è sopravviss­uto

- Di Francesca Visentin

Cosa spinge una persona ad uccidersi? Trovare una risposta non è facile. Cerca di farlo lo psichiatra padovano Diego De Leo, uno dei massimi studiosi del tema, attraverso le storie di chi è scampato al suicidio «per un soffio», a causa di un imprevisto. O di chi è sopravviss­uto alla morte di un parente o amico, narrate nel libro Un’altra vita. Viaggio straordina­rio nella mente di un suicida (Alpes editore, 222 pagine, 18 euro).

Cinthya fin da quando ricorda ha sempre voluto morire. Si stendeva per terra da bambina e guardava il cielo. «Il cielo era casa mia», dice. Mamma bella come una bambola, papà che sembrava Big Jim. La famiglia perfetta. Ma solo in apparenza. Dentro, violenza, incesto, il papà la stuprava, un baby sitter pedofilo, dolore, confusione. Fino a quel flacone di sedativi ingoiato in bagno.

Viktor a 30 anni si è buttato sotto un treno. Si sentiva solo, disperato, isolato. Ha perso le gambe ma è sopravviss­uto. E ha scoperto solo allora che non voleva veramente morire. «Volevo sempliceme­nte una vita diversa. Senza attacchi di panico e senza depression­e». Anna ha subito abusi sessuali fin da quando aveva 5 anni. A 14 anni ha cercato la morte. «Era un tentativo per fermare il dolore». Prima di ingoiare il cocktail di pillole si ripeteva: «Odio la mia vita, non ho niente per cui vivere». Anche Anna si salva: «Il mio tentativo era stato un grido di aiuto».

Sergio, agricoltor­e, una moglie, sei figli. Un giorno sale sulla scala del suo silos più alto e si butta giù. «Non provavo più curiosità verso nulla. Sentivo dentro solo il vuoto, il buio, il distacco totale». Tutto era iniziato tempo prima. «Non riuscivo a perdonarmi l’incidente di mio figlio, guidando il trattore a 12 anni, è rimasto paralizzat­o. Da quel giorno non ho più trovato pace. Ma quando saltai dal silos capii che non volevo morire, cercai di raddrizzar­e il mio corpo, atterrai di piedi. Mi salvai. Ora non m’importa di zoppicare per il resto della vita. Farò ancora un magnifico vino».

Sono tante le storie di «sopravviss­uti» che il libro di De Leo racconta, per ognuna fornendo a margine le osservazio­ni dello psichiatra sul caso, il prima e il dopo. Tra chi invece non ce l’ha fatta, c’è Vittoria Serena, 19 anni,splendida ragazza trevigiana. La sua mamma Terry Bonaldo tiene vivo il ricordo della figlia, facendo conoscere il libro che lei aveva scritto. «Il suicidio è la peggiore delle tragedie umane – spiega il professor De Leo, che è stato a lungo direttore dell’Australian Institute for Suicide Research and Prevention -. Non solo rappresent­a l’epilogo di una sofferenza insopporta­bile per chi lo mette in atto, ma è anche fonte di dolore inesauribi­le perchi sopravvive alla perdita». Uno degli aspetti cruciali della prevenzion­e è nella frase «I have the ear», «Ho orecchio». Nel senso di «so ascoltare». Spiega De Leo: «Quante persone sanno veramente ascoltare e quante sono disposte a farlo? È possibile che molti genitori non sappiamo ascoltare i propri figli? In certi casi accade proprio questo: i genitori non sono stati in grado di cogliere quegli indicatori di pericolo che avrebbero potuto rappresent­are importanti segnali di avvertimen­to. Anche nelle città a più alta densità di popolazion­e, la vicinanza non significa ascolto. L’empatia, l’accorgersi, il «vedere» davvero chi ci sta accanto è sempre più raro. Eppure i segnali, i campanelli di allarme ci sono sempre».

Un’esperienza in qualche modo simile è capitata anche a De Leo: in gioventù non si è accorto del malessere di un caro amico, che poi si è suicidato. Da allora ha deciso di dedicare la sua vita allo studio di queste dinamiche. «Non ho saputo cogliere quello che sarebbe successo - rivela lo psichiatra - questo mi ha convinto dell’importanza di approfondi­re una materia tanto difficile e complessa. Oggi non mi vedo ad occuparmi di nient’altro. Sono innamorato del mio lavoro e sono stato molto fortunato nella carriera. Anche se purtroppo non sono stato fortunato in una dimensione molto più importante». E il riferiment­o è alla tragica morte dei suoi due figli adolescent­i, in un incidente d’auto. Il libro è dedicato proprio a loro. «A Nicola e a Vittorio e a tutti quelli che sono sempre con noi, ma che non possiamo più riabbracci­are», scrive De Leo. «I miei figli sono sempre dentro di me», ribadisce. E indica la strada per andare avanti a tutti coloro che hanno vissuto un lutto traumatico. «Bisogna ricreare un progetto di vita, un nuovo investimen­to emozionale - sottolinea - , il dolore non deve diventare l’identità di chi subisce una perdita. Tutti possiamo risorgere, anche dalle situazioni più disperate. Lo spirito umano ha la capacità di risalire dagli abissi più profondi. Questo è anche il messaggio del libro».

Al lutto traumatico è dedicato il seminario organizzat­o oggi alla Fiera di Padova dall’associazio­ne De Leo Fund Onlus e tenuto dal professor De Leo. Verrà approfondi­ta la tecnica dell’Emdr come strumento operativo per affrontare i casi di lutto traumatico. Il seminario è rivolto a psicologi, psichiatri, educatori, assistenti sociali e studenti. Obiettivo della De Leo Fund, è offrire assistenza gratuita a chi si trova ad affrontare la morte traumatica di persone care. Il numero verde a cui rivolgersi è 800/168678.

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Lo studio La copertina del libro «Un’altra vita» e a sinistra lo psichiatra Diego De Leo
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Nell’arte L’opera di John Everett Millais «Ophelia» (851-1852), Tate Gallery

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