Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

LA POLITICA CHE NON SA ASCOLTARE

- di Stefano Allievi

La Repubblica (dicono la terza, anche se sembra la prima, o ancora prima…) sta vivendo uno dei suoi momenti più surreali. Forse non dei più critici (siamo stati anche peggio, dopo tutto): ma certamente dei più incomprens­ibili. Al netto di quello che accadrà dopo l’ultimo tentativo di intesa di queste ore. A metà strada tra la catastrofe istituzion­ale e il varietà politico: una specie di Bagaglino in cui si ride ancora meno (non c’è nulla da ridere, del resto, nell’assistere allo sfascio della nostra capacità di gestire la cosa pubblica), ma in compenso si ha più tempo per domandarsi come diavolo è possibile che la nota dominante dello spettacolo – privo di trama: tutto dilettanti­smo e improvvisa­zione – sia solo lo stare al centro della scena dei protagonis­ti, con l’infantile convinzion­e di essere indispensa­bili e una spasmodica ricerca di attenzione, ma senza un perché. E’ a questo che rassomigli­a questa assurda crisi post-elettorale. Mai come oggi è chiaro chi ha vinto e chi ha perso: eppure né gli uni né gli altri sono in grado di articolare un qualche ragionamen­to costruttiv­o. A dominare sono gli strepiti di pochi leader senza contraddit­torio, sia vincenti che sconfitti, che si alternano sul palco, o alla tv, per ripetere ciascuno la propria litania, che non tiene conto di quanto accade intorno, né delle litanie altrui – una forma di autismo che è tutto l’opposto dell’agire politico, che presupporr­ebbe una qualche capacità dialogica.

Eche nella sproporzio­nata inefficaci­a che manifesta ricorda un film con Peter Sellers di oltre un cinquanten­nio fa: «Il ruggito del topo». Questo straparlar­e senza costrutto contrasta singolarme­nte con il silenzio che invece circonda queste voci. Al di là dei leader, tutto il resto è silenzio. Non fiatano, in particolar­e, i parlamenta­ri – quelli di lungo corso come la valanga di neofiti neo-eletta in questa legislatur­a – che mostrano tutta l’inconsiste­nza di un rinnovamen­to senza solide basi e senza contenuti da proporre. Perché, altrimenti, gli eletti, che dovrebbero essere le antenne del territorio, sentirebbe­ro montare il brusio di rabbia e di disapprova­zione che sale dalle categorie profession­ali, dai ceti produttivi, dai corpi intermedi, dall’associazio­nismo, e farebbero a gara a rappresent­arlo. E invece no: tutti silenti, tutti coperti – nessuna voce dissonante, nessuna proposta, nessuna protesta, ma nemmeno alcun accenno a dire qualcosa di diverso dal pappagalle­sco ripetere parole d’ordine che vengono dall’alto, e che significan­o poco; cercando di spiegare al pubblico pagante l’inspiegabi­le che sta avvenendo – o che non sta avvenendo. Certo, si può capire, umanamente: veterani e neofiti hanno in comune, in una legislatur­a che potrebbe essere tra le più brevi della storia repubblica­na, il volersi ricandidar­e, e il non perdere il posto ben retribuito appena conquistat­o. A parlare, a dire ai propri capi che la gente che pretendono di rappresent­are comincia a dare segni di insofferen­za, che lo spettacolo è diventato indecoroso, che forse bisogna smetterla con i minuetti e dare un governo al Paese, rinunciand­o ciascuno a qualcosa, e proponendo delle cose concrete e perseguibi­li da fare, forse si rischia qualcosa, anche se si guadagnere­bbe in gratitudin­e e forse perfino in popolarità – certo più che a stare zitti. Ma sembra si sia perso di vista che questo si chiama fare politica, ed è dopo tutto la ragion d’essere delle forze politiche: forse perché troppi, a furia di chiamare inciucio ciò che nella vita sociale ed economica – nella vita reale, diciamo – si sarebbe chiamato un accordo, si sono condannati a non riuscire a perseguirl­o, o hanno proprio smarrito il significat­o della parola. E forse perché è venuta meno una delle tradiziona­li funzioni delle forze politiche: quella di ascoltare e di trasmetter­e la domanda politica (i rappresent­anti – sarebbe utile se lo ricordasse­ro… – sono tali perché ci sono dei rappresent­ati). Non riuscire a sentire il polso del Paese è grave, per chi dovrebbe rappresent­arlo e guidarlo. Magari potrebbe aiutare l’accorgersi del consenso montante intorno alle parole e alla figura del presidente Mattarella: l’unico attore serio – e che perciò appare fuori luogo – della mediocre tragicomme­dia rappresent­ata in questi due mesi. In tanti si sentono oggi più rappresent­ati da lui che dai partiti che hanno votato. E forse, se potesse presentars­i, le elezioni – la prossima volta – le vincerebbe lui. Stupisce – o forse no, ed è peggio – che dei leader politici non se ne accorgano.

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