Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
LA POLITICA CHE NON SA ASCOLTARE
La Repubblica (dicono la terza, anche se sembra la prima, o ancora prima…) sta vivendo uno dei suoi momenti più surreali. Forse non dei più critici (siamo stati anche peggio, dopo tutto): ma certamente dei più incomprensibili. Al netto di quello che accadrà dopo l’ultimo tentativo di intesa di queste ore. A metà strada tra la catastrofe istituzionale e il varietà politico: una specie di Bagaglino in cui si ride ancora meno (non c’è nulla da ridere, del resto, nell’assistere allo sfascio della nostra capacità di gestire la cosa pubblica), ma in compenso si ha più tempo per domandarsi come diavolo è possibile che la nota dominante dello spettacolo – privo di trama: tutto dilettantismo e improvvisazione – sia solo lo stare al centro della scena dei protagonisti, con l’infantile convinzione di essere indispensabili e una spasmodica ricerca di attenzione, ma senza un perché. E’ a questo che rassomiglia questa assurda crisi post-elettorale. Mai come oggi è chiaro chi ha vinto e chi ha perso: eppure né gli uni né gli altri sono in grado di articolare un qualche ragionamento costruttivo. A dominare sono gli strepiti di pochi leader senza contraddittorio, sia vincenti che sconfitti, che si alternano sul palco, o alla tv, per ripetere ciascuno la propria litania, che non tiene conto di quanto accade intorno, né delle litanie altrui – una forma di autismo che è tutto l’opposto dell’agire politico, che presupporrebbe una qualche capacità dialogica.
Eche nella sproporzionata inefficacia che manifesta ricorda un film con Peter Sellers di oltre un cinquantennio fa: «Il ruggito del topo». Questo straparlare senza costrutto contrasta singolarmente con il silenzio che invece circonda queste voci. Al di là dei leader, tutto il resto è silenzio. Non fiatano, in particolare, i parlamentari – quelli di lungo corso come la valanga di neofiti neo-eletta in questa legislatura – che mostrano tutta l’inconsistenza di un rinnovamento senza solide basi e senza contenuti da proporre. Perché, altrimenti, gli eletti, che dovrebbero essere le antenne del territorio, sentirebbero montare il brusio di rabbia e di disapprovazione che sale dalle categorie professionali, dai ceti produttivi, dai corpi intermedi, dall’associazionismo, e farebbero a gara a rappresentarlo. E invece no: tutti silenti, tutti coperti – nessuna voce dissonante, nessuna proposta, nessuna protesta, ma nemmeno alcun accenno a dire qualcosa di diverso dal pappagallesco ripetere parole d’ordine che vengono dall’alto, e che significano poco; cercando di spiegare al pubblico pagante l’inspiegabile che sta avvenendo – o che non sta avvenendo. Certo, si può capire, umanamente: veterani e neofiti hanno in comune, in una legislatura che potrebbe essere tra le più brevi della storia repubblicana, il volersi ricandidare, e il non perdere il posto ben retribuito appena conquistato. A parlare, a dire ai propri capi che la gente che pretendono di rappresentare comincia a dare segni di insofferenza, che lo spettacolo è diventato indecoroso, che forse bisogna smetterla con i minuetti e dare un governo al Paese, rinunciando ciascuno a qualcosa, e proponendo delle cose concrete e perseguibili da fare, forse si rischia qualcosa, anche se si guadagnerebbe in gratitudine e forse perfino in popolarità – certo più che a stare zitti. Ma sembra si sia perso di vista che questo si chiama fare politica, ed è dopo tutto la ragion d’essere delle forze politiche: forse perché troppi, a furia di chiamare inciucio ciò che nella vita sociale ed economica – nella vita reale, diciamo – si sarebbe chiamato un accordo, si sono condannati a non riuscire a perseguirlo, o hanno proprio smarrito il significato della parola. E forse perché è venuta meno una delle tradizionali funzioni delle forze politiche: quella di ascoltare e di trasmettere la domanda politica (i rappresentanti – sarebbe utile se lo ricordassero… – sono tali perché ci sono dei rappresentati). Non riuscire a sentire il polso del Paese è grave, per chi dovrebbe rappresentarlo e guidarlo. Magari potrebbe aiutare l’accorgersi del consenso montante intorno alle parole e alla figura del presidente Mattarella: l’unico attore serio – e che perciò appare fuori luogo – della mediocre tragicommedia rappresentata in questi due mesi. In tanti si sentono oggi più rappresentati da lui che dai partiti che hanno votato. E forse, se potesse presentarsi, le elezioni – la prossima volta – le vincerebbe lui. Stupisce – o forse no, ed è peggio – che dei leader politici non se ne accorgano.