Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
AUTONOMIA, PAROLA SCRITTA E NON DETTA
Flat tax, reddito di cittadinanza, migranti, legittima difesa, turismo, no-Iva, no-Fornero (no-Tav?), conflitto d’interessi, perfino la sicurezza sul lavoro dopo i morti e i feriti bruciati nelle fabbriche rispuntati da una quotidianità che di solito sfugge.
In questi giorni s’è parlato di tutto («tutto quello che ci deve essere per gli italiani») al tavolo della rivoluzione legastellata alle prese con il contratto che dovrebbe dare avvio alla sedicente Terza Repubblica. E di tutto ciò si è parlato nei talk, nei tiggì, nel web, negli approfondimenti dei giornali intenti a sfornare conti e tabelle che a giorni alterni inquietano o rassicurano l’Europa. Ma c’è una parola sulla quale – nel grande dibattito nazionale sul Paese che verrà – non è stato speso un minuto. Di tutto si è parlato fuorché di autonomia.
Fino all’altra sera pensavamo addirittura che questa parola nel contratto di Lega e Cinque Stelle fosse stata dimenticata o magari rimossa per via della sua sconvenienza istituzionale, improponibile ad un presidente della Repubblica con la barra dritta su un Paese da non disarticolare. Invece c’è, silente ma c’è. Riassumibile in due punti. Il futuro governo (se nascerà) si impegna a dare esecuzione all’accordo firmato con l’esecutivo Gentiloni dai presidenti di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, e fa capire che altre Regioni, in base all’articolo 116 della Costituzione, potranno richiedere forme di autonomia. Cioè il copia incolla di quanto prodotto da Luca Zaia, Roberto Maroni e Stefano Bonaccini con il governo di centrosinistra.
Tutto bene? Mica tanto. Se lo stesso Luca Zaia, al quale va ascritto il copyright istituzionale (e non solo) della battaglia autonomista, l’altro ieri ha dichiarato di avere la certezza che l’argomento è sul tavolo ma di non aver letto la bozza, c’è di che preoccuparsi. Ma come? Se «l’argomento» è così importante, come si può costruire l’autonomia del futuro senza coinvolgere l’uomo che oggi ne rappresenta la massima aspirazione e che del partito campione di federalismo è il leader riconosciuto?
Eche dire della totale mancanza di esponenti leghisti e grillini del Veneto - che alle elezioni politiche ha portato alla maggioranza legastellata il record di voti - al tavolo nazionale dove, by Di Maio, «si fa la storia». L’autonomia - al costo di 14 milioni di euro per allestire un referendum l’hanno pronunciata oltre due milioni di veneti nell’urna, l’hanno voluta partiti e categorie, cittadini e imprenditori. Una parola diventata la pietra angolare di una terra nella quale dopo quel 22 ottobre qualcuno ha oracolato che «nulla sarà come prima». Parola brandita dalla Lega come «madre di tutte le battaglie», stella polare della «rivoluzione gandhiana», ragione sociale di quasi quarant’anni declinati in devolution, indipendenza, federalismo. Autonomia peraltro sostenuta e votata – oltre che da Lega e centrodestra - dal M5s veneto e da una stessa parte del Pd.
E adesso? Ora che la Lega si candida al potere da protagonista, puff, l’autonomia risulta «scritta» ma non «detta». In questi giorni non s’è sentita una voce, un urletto, non s’è alzato nemmeno un sopracciglio. Al di là dell’autorevolezza e della pervicacia di Zaia, resta la latitanza della parola sul piano nazionale. La verità è che la via dell’autonomia è piena di ostacoli. Ad esempio, squadernare l’importanza della riforma federalista come quella della flat tax per il nascituro governo legastellato significherebbe spiegare al «Sud sprecone» che deve rimborsare un pezzo di residuo fiscale al «Nord virtuoso». Figuriamoci andare a dirlo al M5s nazionale, che (soprattutto) per il Sud ha preparato il reddito di cittadinanza. Per non parlare del presidente Mattarella, che avrebbe più di un imbarazzo ad accogliere un programma che prevedesse forme di autonomia alla lombardo-veneta, con il reintegro alle Regioni del Nord di una parte di risorse allocate prevalentemente in meridione. La stessa formula evocata dal piano sull’«autonomia per tutte le regioni che la chiedono» sembra il modo più evidente per concludere che autonomia per tutti significa autonomia per nessuno.
Di fatto, per una Lega alla quale va storicamente riconosciuto il merito di aver posto con forza la questione federalista (paradossalmente inserito in Costituzione dal centrosinistra), è che il partito che si appresta a guidare l’Italia sembra essere costretto a nascondere al Paese il suo vocabolario e la sua identità fondativa. Via ampolle, guerrieri, adunate padane. E su le felpe con scritto Salerno o Reggio Calabria. Cioè la Lega sovranista di Salvini. Che di fronte al trionfale sì all’autonomia del Veneto e al buon successo della Lombardia del nemico Maroni aveva abbozzato. L’Italia vale una mossa e una battaglia rimossa. Del resto, cosa si può imputare a Salvini se non un’irresistibile ascesa che luccica più dei diamanti, rimossi pure loro. Resta la domanda: che fine farà l’autonomia? A giocare la vera partita resterà solo lui, Luca Zaia, il terminale di oltre due milioni di voti che dovrà imporre nell’agenda e nel lessico del «governo amico» - se governo sarà - la «madre di tutte le battaglie». Per difendere la ragione sociale della «sua» Lega, Zaia ha rinunciato a un ministero e alle sirene di un premierato. Per il momento l’autonomia, che dal Titolo quinto della Costituzione deriva, se non un titolo di coda sembra ancora un titoletto nel programma legastellato.
@alerussello