Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Ribelli e sognatori, ecco gli «anti-eroi» di Luciano Cecchinel
IL ROMANZO Il poeta trevigiano racconta storie delle sue terre nel libro «La parabola degli eterni paesani» (MarcosYMarcos): uomini che vogliono raddrizzare le cose storte del loro mondo
Nel giugno 1970 Luciano Cecchinel divenne giovanissimo sindaco di Revine-Lago, un piccolo paese a nord di Vittorio Veneto, dove ormai la montagna, declinando il più sereno paesaggio prealpino, comincia a diventare erta e aspra. Non era ancora laureato, era del ‘47, e militava nella sinistra Dc con fervido impegno etico e ideologico, seguendo le orme paterne, in un clima sociale fortemente conflittuale, dove resisteva dolorosa la memoria divisiva della guerra partigiana con i suoi segreti e rancori. È in questo periodo, quasi come reazione alle delusioni della politica, che maturano senza fretta la sua poesia e il suo studio della cultura contadina, destinati a palesarsi alla fine degli anni Ottanta e con più continuità nei Novanta, per nuovamente interrompersi quando la primogenita venne gravemente colpita da un male terribile, cui soccombette dopo quattro anni di tormenti e sofferenze.
Intanto Cecchinel, già alla fine dei Settanta, aveva affidato ai suoi quaderni una semplice storia paesana con la quale, seppure indirettamente, chiudeva i conti con la propria esperienza politica, raccontando La parabola degli eterni paesani (Marcos y Marcos, pp. 250, € 18,00), che non si limita a ripercorrere le vicende delle sue terre, ma con grazia lieve e sorprendente invenzione offre un appassionato bilancio di una stagione particolarmente tesa della vita comunitaria, per un verso carica di speranze in un futuro finalmente liberatorio, ma per l’altro condannata ad avvitarsi in un intrico di risentimenti e antagonismi. I protagonisti sono uno scombinato gruppo di ribelli e sognatori, anarchici e gran bevitori, che l’autore chiama i scanagòti, e che descrive come «refrattari alla civiltà», «rotelle inceppate del processo evolutivo o farneticatori imbelli», nonostante la presenza tra loro di qualche maestro di autentica saggezza e i buoni propositi di «raddrizzare le cose storte, e cambiare il loro pezzo di mondo».
Cecchinel ricorre a un insolito stile «aulico» che egli sente congeniale ai suoi intenti ironici o grotteschi e abbastanza straniante da sottrarre a qualsiasi raffigurazione realistica questo suo «piccolo mondo»: «La commedia -spiega- sa esprimere contenuti più seri della tragedia... soprattutto quando esprime contenuti bassi con una forma aulica» perché il grottesco nasconde i temi più nostalgici o quelli più scopertamente recriminatori; questa Parabola, insomma, riassume la vicenda di una generazione che ha fatto i conti con un cambiamento radicale, subendo lo sviluppo del consumismo e della globalizzazione con la loro intrinseca violenza.
A questa tensione del nuovo, che la tecnologia quotidianamente esaspera, gli uomini semplici e giusti oppongono «un nuovo modo di vivere, di lavorare, di lavorare per vivere, per un futuro in cui tutti possano operare in pace, padroni finalmente del loro sudore» e a questo «oscuro malessere dei più» tocca ai pochi che sono «alla ricerca delle ragioni ultime del vivere» dare una voce forte e ferma, perché a vivere sulle fatiche altrui ci provano quasi tutti senza nessuna preoccupazione.
Per fortuna, verrebbe paradossalmente da dire, Riva è un paese povero, difeso da «montagne impervie e boscose», con ancora aperte le ferite della Guerra e quel poco che c’è, l’unica ricchezza che ostinatamente nasconde sono, secondo una leggenda che da decenni è diffusa tra i partigiani delle zone prealpine, presunti depositi di armi, «le armi della causa», così le chiamano, che non si dovevano trovare se non nel giorno della ripresa della lotta di liberazione, perchè davvero erano l’estrema speranza.
La caccia al tesoro è l’ultima avventura dei scanagòti, neppure essa inutile «chè delle loro contrastate vicende a lungo si ragionò e ancora si ragiona; e con esse dei valori la cui luce, come quella della stella del mattino, essi pazientemente seguirono».
La chiusa della parabole ne riassume il significato e la morale: «come la società è un organismo che vive e cresce, nulla, nemmeno la più umile delle istanze può andare perduta: e allora non solo nel male, ma anche nel bene, non si potranno più chiudere gli occhi che hanno cominciato a vedere».