Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

FARAH E LA SUA COMUNITÀ

- Di Stefano Allievi

La vicenda di Farah, la ragazza diciannove­nne di Verona appena tornata dal Pakistan, dove era stata portata dalla famiglia, e da dove ha chiesto di essere riportata in Italia, ci è utile per parlare di vicende che non sono la norma, ma sono gravi, si ripetono, e vanno affrontate.

Non serve schierarsi tra innocentis­ti e colpevolis­ti. Che Farah fosse prigionier­a della famiglia, che l’ha costretta ad abortire e voleva farla sposare a un connaziona­le contro la sua volontà, o volesse sempliceme­nte vivere la sua vita e la sua libertà in Italia, il problema cambia solo in drammatici­tà, non nella sostanza. Il fatto che oggi ci sia stato il lieto fine, anziché un cadavere da piangere, ci consente di affrontare il problema – che c’è, e va affrontato e discusso – con più serenità. Non per trovare un colpevole, ma una ricetta. C’è un problema culturale nel rapporto tra genitori e figli, in alcune comunità immigrate? Certo, c’è spesso, è forse inevitabil­e che ci sia, e caratteriz­za le storie di migrazione da sempre: anche quando a emigrare eravamo noi. Culture diverse, che si trapiantan­o in un terreno nuovo, in mezzo ad altre culture. I figli crescono in un ambiente diverso da quello dei genitori, con valori e stili di vita differenti, spesso acquisendo un livello di istruzione più elevato. Normale che ci siano tensioni e dissonanze cognitive. Che si possono affrontare e risolvere. Mettendo alcuni punti fermi.

Non ci può essere pretesa di vivere qui come si viveva altrove. Come spesso hanno risposto i figli di immigrati ai loro genitori: se volevi farmi vivere come a casa (a casa tua, del genitore, perché la casa del figlio è qui), perché sei emigrato? Occorre quindi il rispetto delle regole di convivenza civile dominanti, e in primis della legge. La maggior parte delle persone si adegua, in maniera ovvia e naturale. Se a qualcuno non piace, può sempre tornarsene da dove era venuto. Non si tratta di obbligare nessuno all’omologazio­ne culturale: viviamo in un contesto giuridico e sociale che consente ampie forme di diversità, compatibil­i con il rispetto della propria identità e delle leggi (un discorso che non riguarda solo gli immigrati, peraltro). Ma ci sono dei principi di fondo imprescind­ibili, dei diritti inalienabi­li: e questi vanno rispettati. E insegnati: anche all’interno delle comunità. Altrimenti si è fuori dal patto sociale. E se ne paga il prezzo.

E’ inaccettab­ile qualsiasi forma di copertura: o, peggio, di omertà. C’è bisogno di valorizzar­e le voci coraggiose che, dall’interno delle comunità, denunciano le difficoltà e le storture, aiutando nel concreto a risolvere i problemi. Con l’aiuto delle istituzion­i e in collaboraz­ione con esse. Se la scuola si attiva, o in una famiglia arriva l’assistente sociale, non è una intromissi­one indebita né un problema, ma un pezzo dello soluzione: prima che sia troppo tardi, e ad arrivare sia il giudice. E non è ammissibil­e che, di fronte alla denuncia di un fatto, si reagisca con la chiusura intracomun­itaria o con il vittimismo: ce l’hanno con noi, sono razzisti, islamofobi… Anche perché delle responsabi­lità, anche interne, spesso ci sono: nel modo in cui si descrive l’altro, le altre religioni, i costumi e le morali altrui. Farah si è salvata grazie alle sue relazioni sociali nell’ambiente (le amiche, la scuola) e all’intervento tempestivo delle istituzion­i: è in esse che riponeva la sua fiducia – e questa dovrebbe essere materia di riflession­e, per le comunità.

D’altro canto, sul lato autoctono della questione, queste vicende non dovrebbero essere usate per colpire indebitame­nte una comunità (i pakistani), una categoria (gli immigrati) o una religione (l’islam), come troppi fanno: di picchiare le figlie, o di obbligarle a sposarsi come vogliono i genitori, non c’è scritto nel Corano né nella costituzio­ne pakistana, e non dipende dall’essere nato altrove. Si può denunciare un problema senza attribuirl­o a tutti. Ci si attivi invece per disinnesca­re i conflitti, e aiutare la crescita di consapevol­ezza di quanto accade, affinché vicende così dolorose non si ripetano. Solo così aiuteremo veramente i soggetti deboli, e le vittime, come spesso diciamo di voler fare ma più di rado facciamo.

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