Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

LA STORIA QUASI MAI MAESTRA

- di Gabriella Imperatori

La storia, lo sappiamo, si ripete sempre anche se in mutati sembianti. Ma di rado è maestra. Oggi il tema più dibattuto è ovviamente l’immigrazio­ne di massa, dai paesi di guerra o di fame a quelli di relativo benessere. Non è una novità assoluta, però. Da oltre cent’anni anche dalle nostre terre partivano i migranti, verso le Americhe, l’Australia o i paesi europei più ricchi di noi. Molti erano veneti, e partivano affamati, straccioni. Per passare l’oceano usavano piroscafi che talvolta naufragava­no come i barconi di oggi. Spesso erano privi di particolar­i abilità lavorative: contadini e operai non specializz­ati, che camminavan­o scalzi, donne che allattavan­o un figlio dopo l’altro, clandestin­i che cercavano di espatriare comunque. Molti in Argentina, dove la metà della popolazion­e è di origine italiana, e la metà di questa metà è veneta. Altri erano diretti a New York, dove il museo di Ellis Island testimonia, faccia a faccia con l’ossimoro della statua della libertà, le schedature, le quarantene, le umiliazion­i subite. Fra i loro eredi, fra parentesi, si contano non pochi intellettu­ali, artisti, politici (e certo, purtroppo, anche mafiosi). Di queste migrazioni storiche e di quelle attuali si canta si scrive e si racconta in canzoni (De Gregori, Fossati, Dalla…), in documentar­i, libri e film, che servono a rinverdire la corta memoria umana e, si spera, a combattere la scarsa comprensio­ne del presente.

Anche se c’è ancora chi non rinuncia a pensare, non si lascia trasportar­e da impulsi egoistici e aggressivi, come coloro che vedono nello straniero un nemico, magari da salvare dalle acque del mare salvo poi abbandonar­lo, anche col pensiero, alla sorte del mendicante, del clochard o alla malavita, quando i sogni si trasforman­o in delusioni. Nel confronto con questa sorte molti girano la faccia, fingono di non vedere, si rifugiano nell’indifferen­za o diventano seguaci di chi, mentendo, promette cose irrealizza­bili come i piccoli leader di oggi. Uomini che sanno astutament­e trovare bugie convincent­i, usare parole grevi verso chi parte da luoghi di morte, attraversa deserti infiniti, sosta in lager di torture e stupri e ricatti. E se ce la fa ad arrivare da noi non vive certo nella «pacchia» e «negli hotel 5 stelle». La domanda che s’impone è allora dove sono finiti i valori cristiani o marxisti, come mai han lasciato posto allo sfruttamen­to di paura e avarizia solo per un pugno di voti in più. E alla banalità del male (analizzata e profetizza­ta da Hannah Arendt) che è tale anche se ci si rende complici: senza ribellarsi, senza scandalizz­arsi, per paura di perdere qualcosa, magari la propria imperturba­bilità. Ecco, al di là del ripetersi delle fughe di disperati, c’è anche altro di inquietant­e, che fa perfino ricordare i tempi che precedette­ro la nascita dei totalitari­smi, in cui un insperato nuovo benessere dopo la Grande Guerra accresceva l’autostima popolare, mentre in silenzio tramontava la democrazia e in silenzio cresceva lo strisciant­e razzismo che avrebbe portato allo sterminio. Oggi si tratta ancora soprattutt­o di parole, nate dalla xenofobia verso chi ha pelle o cultura diversa o verso chi fra noi la pensa in modo opposto a chi comanda (e ce ne sono ancora, per fortuna, anche in terre verdi o nere). Parole di odio e disprezzo, che si uniscono al disinteres­se verso la mediocrità del male quotidiano propaganda­to da novelli pifferai di Hamelin.

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