Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
LA STORIA QUASI MAI MAESTRA
La storia, lo sappiamo, si ripete sempre anche se in mutati sembianti. Ma di rado è maestra. Oggi il tema più dibattuto è ovviamente l’immigrazione di massa, dai paesi di guerra o di fame a quelli di relativo benessere. Non è una novità assoluta, però. Da oltre cent’anni anche dalle nostre terre partivano i migranti, verso le Americhe, l’Australia o i paesi europei più ricchi di noi. Molti erano veneti, e partivano affamati, straccioni. Per passare l’oceano usavano piroscafi che talvolta naufragavano come i barconi di oggi. Spesso erano privi di particolari abilità lavorative: contadini e operai non specializzati, che camminavano scalzi, donne che allattavano un figlio dopo l’altro, clandestini che cercavano di espatriare comunque. Molti in Argentina, dove la metà della popolazione è di origine italiana, e la metà di questa metà è veneta. Altri erano diretti a New York, dove il museo di Ellis Island testimonia, faccia a faccia con l’ossimoro della statua della libertà, le schedature, le quarantene, le umiliazioni subite. Fra i loro eredi, fra parentesi, si contano non pochi intellettuali, artisti, politici (e certo, purtroppo, anche mafiosi). Di queste migrazioni storiche e di quelle attuali si canta si scrive e si racconta in canzoni (De Gregori, Fossati, Dalla…), in documentari, libri e film, che servono a rinverdire la corta memoria umana e, si spera, a combattere la scarsa comprensione del presente.
Anche se c’è ancora chi non rinuncia a pensare, non si lascia trasportare da impulsi egoistici e aggressivi, come coloro che vedono nello straniero un nemico, magari da salvare dalle acque del mare salvo poi abbandonarlo, anche col pensiero, alla sorte del mendicante, del clochard o alla malavita, quando i sogni si trasformano in delusioni. Nel confronto con questa sorte molti girano la faccia, fingono di non vedere, si rifugiano nell’indifferenza o diventano seguaci di chi, mentendo, promette cose irrealizzabili come i piccoli leader di oggi. Uomini che sanno astutamente trovare bugie convincenti, usare parole grevi verso chi parte da luoghi di morte, attraversa deserti infiniti, sosta in lager di torture e stupri e ricatti. E se ce la fa ad arrivare da noi non vive certo nella «pacchia» e «negli hotel 5 stelle». La domanda che s’impone è allora dove sono finiti i valori cristiani o marxisti, come mai han lasciato posto allo sfruttamento di paura e avarizia solo per un pugno di voti in più. E alla banalità del male (analizzata e profetizzata da Hannah Arendt) che è tale anche se ci si rende complici: senza ribellarsi, senza scandalizzarsi, per paura di perdere qualcosa, magari la propria imperturbabilità. Ecco, al di là del ripetersi delle fughe di disperati, c’è anche altro di inquietante, che fa perfino ricordare i tempi che precedettero la nascita dei totalitarismi, in cui un insperato nuovo benessere dopo la Grande Guerra accresceva l’autostima popolare, mentre in silenzio tramontava la democrazia e in silenzio cresceva lo strisciante razzismo che avrebbe portato allo sterminio. Oggi si tratta ancora soprattutto di parole, nate dalla xenofobia verso chi ha pelle o cultura diversa o verso chi fra noi la pensa in modo opposto a chi comanda (e ce ne sono ancora, per fortuna, anche in terre verdi o nere). Parole di odio e disprezzo, che si uniscono al disinteresse verso la mediocrità del male quotidiano propagandato da novelli pifferai di Hamelin.