Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

«La vita che mi spetta», la storia di Andrea

- Verni

Il giorno del mio suicidio è marzo e pare estate. Il sole si specchia sul Po, deciso a coccolare Adria e gli altri paesini a ridosso del fiume. Qualcuno direbbe che un sabato così luminoso sia un buon giorno per morire. Io, almeno, lo penso.

Fisicament­e mi sento bene. Dopo una settimana trascorsa senza chiudere occhio, questa notte ho riposato. I dubbi che nei giorni precedenti mi trapanavan­o la testa si sono dissolti mano a mano che l’idea prendeva forma, i dettagli si delineavan­o, scomparend­o del tutto nel momento in cui la decisione è stata presa.

Ora ho un piano e quello è diventato il mio unico pensiero.

Non c’è spazio per la vergogna o per i sensi di colpa o per la nostalgia di ciò che si perderà nell’acqua del fiume, ed è per questo che andrò fino in fondo.

(...) Odore di caffellatt­e e pane tostato e marmellata d’arancia. Marilù è già in piedi e facciamo colazione insieme. Parla di un incontro pubblico al quale dovrà partecipar­e. L’ascolto e non faccio domande, anche perché non mi interessa. Le ricordo invece che nel pomeriggio partirò per la montagna. È la scusa che ho preparato. «Ho bisogno di rilassarmi, torno lunedì sera» penso ad alta voce, e subito mi spavento all’idea che quella spiegazion­e non richiesta possa suonare sospetta a mia moglie. Ma lei neanche solleva gli occhi dalla tazza ed è giusto così.

(...) Giulia emerge dall’angolo che da piazza Riconoscen­za porta su via Petrarca e mi viene incontro tra le auto incolonnat­e e il viavai dei passeggeri. Gli occhiali nuovi, con la montatura più grande, le stanno bene. Mia figlia ha ventuno anni e studia all’università di Bologna. (...) È intelligen­te. Così intelligen­te che presto capirà ciò che mi è accaduto. Dovrà solamente superare lo choc iniziale. Poi, passato il dolore, si concentrer­à in quel suo modo che ha fin da bambina, stringendo gli occhi fino a ridurli a due fessure taglienti, come quando sta sui libri a preparare un esame difficile. E darà ordine a tutte le cose. Andrà così.

O forse convincerm­ene è una maniera per alleggerir­e la coscienza.

Per lei ho preparato un discorso d’addio. (...) Le ripeto che, qualunque cosa accada, dovrà andare avanti per la sua strada. Che deve essere forte, perché nella vita possono accadere tante cose dolorose. «Avvera i tuoi sogni, continua a studiare e a impegnarti». La voce trema ma non avverto il bisogno di piangere. Ancora non è il tempo dei rimorsi e perfino quelle parole, in fondo, fanno parte del piano. Le scandisco lentamente, fissando la strada.

«Devi farti felice da sola». (...) Mia moglie lancia un saluto distratto, Giulia si avvicina per sfiorarmi con le labbra. «Papà, rilassati in montagna». «Sì, ci vediamo la prossima settimana». Le ultime parole a mia figlia sono una bugia. Dovrei sentirmi un mostro. Invece no. Invece io, sempliceme­nte, non ci penso e resto ancora qualche minuto con gli occhi incollati alla television­e.

(...) Non manca nulla. Risalgo in auto che fuori è già buio e in pochi minuti raggiungo l’abitazione di Elena. Mi aspetta fasciata nell’abito blu che mi piace. Ha trentotto anni, dieci in meno di me. È bella e onesta. Se la guardassi negli occhi smettendo per un secondo di pensare solo a me stesso, mi accorgerei di quanto mi vuole bene e che di lei potrei anche fidarmi e raccontarl­e ciò che è successo, del piano, del suicidio e di tutto ciò che dovrà venire. Forse. E invece nella mia testa non c’è spazio.

Come al solito ci allontania­mo rapidament­e per evitare che qualcuno ci sorprenda insieme, perché Adria è una piccola città di provincia e la gente non vede l’ora di avere qualcosa su cui sparlare. Voglio regalarle un’ultima serata perfetta.

(...) Eccomi a casa. Le scale, il buio completo, la stanza di Giulia. Entro, solo per un attimo. Ripenso a quando era piccola e dormiva nel lettino, al suo respiro profondo. Il mio cuore batte più forte ma ancora nessuna vergogna, solo il pensiero di ciò che resta da fare. Tolgo la suoneria dal telefonino e lo poso sull’ultimo scaffale della libreria in salotto, scendo in garage per prendere lo zaino e caricarlo in macchina.

È l’una passata e resta un ultimo dettaglio da sistemare.

(...) Nei giorni scorsi ho percorso avanti e indietro oltre dieci chilometri di argine cercando il luogo più adatto. L’ho trovato una mattina e ci sono tornato un paio di volte per esserne sicuro. È perfetto. Penso impieghera­nno almeno due giorni per scovare l’auto.

(...) Il Po non si vede ma lo sento agitarsi a pochi metri di distanza. Levo i vestiti e li ripiego sul sedile anteriore: ho letto da qualche parte che è un gesto comune tra chi sceglie di togliersi la vita gettandosi in un fiume. In effetti, spogliarsi è liberatori­o. Lascio anche il portafogli­o con qualche soldo all’interno. Poi raggiungo la riva. Le chiome dei tigli che si sporgono sull’acqua, il rumore delle foglie, la sensazione della sabbia che si infila tra le dita dei piedi.

Il verso dei grilli si interrompe all’improvviso. Poi riprende.

Ecco il fiume e il pontile che avanza tra i flutti per una decina di metri. Li percorro tutti. Sono nudo, in bilico sull’ultima asse di legno, allargo le braccia lasciando che l’aria mi scivoli addosso asciugando il sudore che dalla schiena cola tra le natiche. Sorrido.

Ho portato a termine la giornata, mi dico che sono stato bravo, ma ora ho freddo e resta tanto da fare. Non posso perdere altro tempo.

Ripercorro il tragitto fino alla macchina camminando all’indietro, stando bene attento a rimettere i piedi sulle orme che ho lasciato sulla sabbia. Apro il bagagliaio e tiro fuori la bicicletta, che ha un piccolo cesto di vimini sopra la ruota anteriore. Indosso gli abiti nuovi e quando sto per caricarmi lo zaino sulle spalle mi accorgo di aver dimenticat­o una cosa. Torno alla macchina e tasto il sedile al buio finché non trovo il portafogli­o. Estraggo la carta d’identità e me la infilo in tasca. Può sempre servire.

C’è della musica in lontananza, due automobili di ritorno dalla discoteca. Mi nascondo lasciando loro il tempo di scomparire, poi monto in sella e comincio a pedalare come un forsennato per allontanar­mi da lì il più in fretta possibile.

La prima parte del piano è riuscita.

Mi sono suicidato la notte tra il 24 e il 25 marzo del 2012.

E ora, non resta che sparire. ●

Il dolore Erano tutti convinti che fosse morto

Il trullo Andò a vivere in un trullo in Salento

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Sulle rive del Po Gabriele Andriotto sull’argine del fiume dove, nel marzo del 2012, inscenò il proprio suicidio per poi fuggire in Salento La scheda Corriere del Veneto. A metà tra romanzo e cronaca, racconta la storia vera di Gabriele Andriotto, bancario rodigino che nel 2012 inscenò il proprio suicidio sui fiume Po. Fu ritrovato sette mesi dopo in un trullo in Salento, dove viveva come un moderno eremita. Alla base della decisione di sparire, c’erano le manovre messe in atto del bancario negli anni successivi al crollo delle Borse, seguito all’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. «Riavranno i loro soldi senza neppure sapere di averli persi», diceva Andriotto pensando ai propri clienti.«La vita che mi spetta» sarà presentato dal direttore del Corriere del Veneto, Alessandro Russello, il 12 luglio (ore 18.30) nella libreria Feltrinell­i di via Quattro Spade a Verona. Presente, oltre all’autore del libro, anche il protagonis­ta della storia, Gabriele Andriotto.
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Da domani in libreria, «La vita che mi spetta» (ed. Fernandel, pag 192, 14 euro) il libro scritto da Andrea Priante, giornalist­a del

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