Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Renè Caovilla gli 80 anni del re delle scarpe di lusso

Gli ottant’anni del re delle scarpe Sandali icona, tacchi stiletto, gioielli calzati dalle donne più famose «Mi diverto e resto un entusiasta»

- Chiamulera

«Il futuro mi diverte. Non lo temo, al contrario. Resto un entusiasta». Parlare con Renè Fernando Caovilla nel suo ottantesim­o compleanno, dopo una vita passata tra le calzature e la bellezza, è come parlare con Renè quand’era all’inizio della sua carriera. Cioè quando, nei tempi bui della guerra e poi in quelli selvaggi ed espansivi del boom, imparava dal padre Edoardo il mestiere di famiglia, cresciuto nei secoli tra le anse sinuose del Brenta ad opera di coloro che lo impararono a loro volta dai ciabattini al seguito dei signori veneziani. Non è cambiato nulla, in questo signore che conserva intatta la semplicità dell’artigiano veneto. L’unica differenza con allora è l’impero internazio­nale che i Caovilla hanno edificato pazienteme­nte nel corso del proprio Novecento.

Li custodisce in uno sterminato archivio privato nella sua Fiesso d’Artico gli oltre tremila modelli di scarpe che, dal 1923 (quando il padre, visionario, aprì il primo laboratori­o) e poi dal 1934 (quando nacque il marchio) ad oggi, Caovilla ha disegnato e fatto indossare alle donne di tutto il mondo. Sono meraviglio­si. In cima alla lista l’iconico sandalo «Snake» del 1975, una sottile linea fatta come una molla che si avvita intorno alla caviglia, un filo sinuoso di pelle bordato di strass. Del quale ora Caovilla rivela: «Nacque pensando proprio a una molla, lo sapeva?».

Che cosa intende?

«Lo concepii io, pensando ad un magnifico braccialet­to d’oro che avevo visto al museo Archeologi­co Nazionale di Napoli. Uno di quei bracciali romani antichi. Un serpente che si attorcigli­a intorno a un polso, provenient­e dalla Casa del Fauno di Pompei. Mi venne in mente di fare una spirale. Il problema era come mantenerne l’elasticità. Ruppi una sveglia per vedere come funzionava la molla: disfacendo­la non si riavvolgev­a più. Quindi cercammo di dare al materiale la cottura giusta. Perché non si svitasse. Ed ecco la scarpa».

Lei ha compito ottant’anni, ma la storia della calzatura in riva al Brenta è una storia più antica

«Siamo qui perché i nostri antenati hanno imparato da coloro che servivano i nobili veneziani. Sono loro che ci hanno insegnato a fare le scarpe. Non ci saremmo se non ci fossero stati i ciabattini che venivano al seguito dei patrizi nelle loro ville».

La prima creazione di suo padre si chiamava «Rita». Ma non era Rita Hayworth: era sua madre

«E per lui non era solo una moglie, era un aiuto formidabil­e. Lavorava con lui nel laboratori­o artigiano. Lei seguiva le tomaie, mio padre seguiva il fondo e il taglio. Una gestione familiare».

Eppure ne è nato un marchio che ha viaggiato in tutto il mondo. Dallo stivale fatto come una calza, che si indossa morbido, alle finiture preziosiss­ime, al filo di perle lungo la caviglia

«Non abbiamo mai mollato. Abbiamo continuato a disegnare e a creare. E a studiare».

In questi decenni la maggior parte delle aziende della Riviera hanno chiuso oppure sono state inglobate in grandi gruppi. Voi siete tra gli unici a essere rimasti autonomi, tanto da aprire negozi e linee con il vostro nome. Come avete fatto?

«Non ho mai dato più del 20% della nostra produzione allo stesso gruppo. Non volevo farmi comprare. Quando cominciai il rapporto con i marchi del lusso il primo che incontrai fu Valentino Garavani. Fui io a cercarlo. Gli scrissi: lei fa dei vestiti da sogno, penso di avere delle scarpe che potrebbero starci bene. Nacque un rapporto durato trent’anni. Ma rimasi attento al pericolo di diventare schiavo di questo o di quello. Valentino, Dior, Chanel. Diversific­avo. Sapevo che se dipendi troppo da uno e poi il rubinetto si chiude rischi di restare a piedi. Poi nel 2000 abbiamo fatto una svolta ulteriore: abbiamo aperto negozi, ci siamo arrangiati con le nostre forze. Ci siamo creati una clientela».

La ballerina, che elimina il tacco, è un’altra delle vostre icone. E’ stata una conquista femminile di comodità o una rinuncia alla bellezza?

«Ma quale rinuncia. Le donne hanno il piacere di cambiare. La storia si ripete, ogni venti, trent’anni. Il tacco sale, scende, poi risale. Noi ci siamo limitati ad affiancare alla scarpa alta anche una scarpina bassa. E l’abbiamo resa preziosa».

Quando disegna un nuovo modello a cosa pensa?

«Provo entusiasmo, come se fosse ogni volta la prima volta. Nasce in me guardando le cose più strane. Poi, dopo la passione, ci vuole costanza e spirito di sacrificio. Ogni tanto trovo giovani che mi danno soddisfazi­one».

Come sono i veneti di oggi che vengono a lavorare da voi?

«Se hanno voglia di lavorare, sono meglio di quelli di una volta»

Perché?

«Possiedono una costanza che non finisce mai. Non hanno la rigidità degli orari che c’era una volta.

E ho capito perché: si divertono. Lavorano volentieri, capisce? Da loro ottengo delle soddisfazi­oni che mi rallegrano. Mi danno vita».

Si sente ottimista?

«Non è solo questione di sentirsi tali. E’ un dovere. L’imprendito­re ha il dovere di essere versatile e flessibile. Prenda il rapporto con questo governo. Di periodi migliori ne abbiamo passati, ma anche di peggiori. Il nuovo che sta arrivando non è tutto male. Dobbiamo conviverci, pensare innanzitut­to al bene delle aziende, cioè di chi vi lavora, e delle loro famiglie. Senza cambiare bandiera, però».

Che ne pensa dei migranti? Una risorsa o una minaccia?

«I poveri esseri umani che arrivano mi fanno piangere il cuore. Bisogna fermarli prima che partano, non possiamo farlo nel mezzo del Mediterran­eo. Dobbiamo andare in quei paesi con organismi europei e mondiali per aiutare a risolvere i problemi lì dove sorgono. Ma bisogna anche sapere che non possiamo fare miracoli».

 La vertigine del tacco Alle donne piace cambiare. Il tacco sale, scende, poi risale. Noi alle scarpe alte abbiamo affiancato quelle basse. E le abbiamo rese preziose

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