Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Il Partito democratico dopo Genova
Il Pd, in particolare, è giunto alla fine della sua storia: un ciclo che si chiude. I marchi – anche in politica – hanno una loro reputazione. Magari inspiegabile. E così come inspiegabilmente (talvolta) hanno un successo travolgente e inimmaginabile, così, in un batter d’occhio, al di là di qualsiasi ragione, e merito, e demerito, possono perderla. Al punto che riproporli così come sono rischia di essere controproducente, un’operazione in perdita. E’ probabilmente il caso del marchio Partito Democratico. Ormai irrimediabilmente compromesso, almeno per il grande pubblico. Con un appeal limitato. Insieme a molti altri del passato, identificati col passato. E si può solo prenderne atto. Non ha più senso nemmeno rivendicare la bontà delle scelte fatte, o difendere un’eredità, nei suoi aspetti positivi. Semplicemente, il marchio – così com’è – non è più in grado di incontrare un pubblico significativo, tale da poter diventare in futuro dominante, o almeno incisivo: non è più nelle sue corde. Nato con l’aspirazione maggioritaria di interpretare il paese, oggi, così com’è, non può pensare di rappresentarne che una minoranza, neanche molto significativa, e in calo tendenziale. Non è nemmeno più questione leader: chiunque sia il prossimo segretario, a vendere lo stesso prodotto, o un prodotto un po’ diverso con la medesima etichetta, non cambierebbe nulla. E’ il brand che è segnato. Siamo in uno di quei momenti storici in cui delle cose finiscono, inevitabilmente e inesorabilmente. Come finiscono degli amori, qualche volta: senza ragione apparente. Come finisce il fascino di un
leader carismatico, o appunto di un prodotto, di un brand. A un certo punto, semplicemente, non piace più, e il consumatore spera di trovare un prodotto diverso, che lo soddisfi. Cosa può sostituirlo, allora? E’ significativo che tutti i Pd della parte più produttiva del paese, dall’Emilia al Veneto, pensino almeno a una specie di Pd territoriale, o federale, comunque autonomo, magari con un nome diverso. Segno già questo che il brand non è considerato appetibile nemmeno da chi lo rappresenta. Ma non basterà un’operazione cosmetica. Certo non una sommatoria politicista di sigle già esistenti (le altre sono ancora più agonizzanti, con l’aggravante di non accorgersene nemmeno). Probabilmente servirà qualcosa del tutto nuovo, diverso anche come genesi, in cui le sigle antiche – come il Pd, come altre – possano entrare e sciogliersi con dignità (o rimanere come componente, tra tante), senza recriminazioni o processi o accuse, ma anche senza pretese di essere in alcun modo determinanti, men che meno egemoniche: e con tante persone nuove, a rappresentare professioni, categorie, tendenze, modi di sentire, culture, diversità, competenze. Qualcosa di innovativo perché radicalmente antitetico all’esistente: sia al governo e ai suoi valori guida, sia all’attuale opposizione. Il vuoto, in politica, non rimane tale a lungo. In qualche modo qualcosa lo riempirà. Se non sarà una cosa nuova, sarà quello che c’è adesso, ciò che è oggi nel vento della storia: senza opposizioni degne di nota. Ciò che, comunque la si pensi, sarebbe un disastro per la democrazia.