Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
VENEZIA E LA BOLLA GIALLOVERDE
Sarà perché Venezia è la «più bella città del mondo» che si porta dentro il brutto dei suoi opposti. Che pesano millanta volte rispetto alle bellezze meno fragili del cristallo. Dal decadimento ai conflitti, dall’appeal al senso di respingimento, dal fermento all’inazione, dall’esercizio del potere a quello della gestione e della visione. Cos’è Venezia? Cosa dovrebbe-potrebbe essere? Domande che nella «contemporaneità» incombono almeno dal 1966, l’anno in cui la città annegò mescolando i pesci veri con quelli di vetro di Murano e facendo rimbalzare l’inedito (e oggi frustro) grido in ogni dove: «Salviamo Venezia». Veneziani, italiani, americani, inglesi, marziani. Suona perfino sordo, al netto della nobiltà degli intenti, il programmatico tiritera. «Salviamo Venezia» è diventato il luogo della retorica, il deposito della chiacchiera da convegno, l’intellettualissimo esercizio di stile rispetto al bisogno di decisioni della politica e dell’amministrazione. Scandalo Mose a parte («a parte» si fa per dire) Venezia è sempre lì. Fra Disneyland e Immobiland, grandi navi e piccoli cabotaggi, sindaci che vanno e ministri che vengono. Immutabile. Impenetrabile. Intangibile. Per fortuna e per sventura. Con i suoi cortocircuiti: dai sei miliardi spesi per le dighe mobili nel più grande scandalo di Stato dei tempi moderni all’impossibilità di piantare ovunque un chiodo per il rischio di andare in galera.
Un male (necessario?) che parte dall’architettura del potere. Di chi è Venezia con la sua laguna? Chi la governa? Diremmo il sindaco ma è la più sbagliata delle risposte. Il sindaco ha potere solo sull’8 per cento del territorio (città e canali interni) mentre il resto è ripartito in un risiko siffatto: l’Autorità portuale (con il governo che la controlla), la Capitaneria di porto, lo Stato con i beni del Demanio (per dire, parte dell’Arsenale), il Provveditorato alle Opere pubbliche (il vecchio Magistrato della Acque, nome cambiato per via dei Magistrati inquisiti nell’inchiesta Mose). Per non parlare delle forme di controllo indirette fra istituzioni e lobby. Dalla Regione – che ha investito un mare di soldi nella Marittima e che rischia di perdere tutto se le navi da crociera non attraccheranno più lì – fino ai gondolieri, ai motoscafisti, ai trasportisti, alle società crocieristiche e ai No Nav. Lobby a parte, una divisione di poteri e contropoteri che in assoluto potrebbe starci data la peculiarità di Venezia. Ma che da sempre ha condizionato la vita di questa città «unica». Stretta fra la sua storia e il suo presente, la tutela e il neo sviluppo, la perdita di abitanti e l’alberghizzazione dei luoghi della fuga. Pensate a quando dev’essere presa una decisione che non sia quella imposta dalle leggi di mercato con la loro forza monetaria (se ho un appartamento non lo vendo al Pubblico per farne alloggi per anziani ma a un americano che me lo paga dieci volte). Decisioni di questo genere: come ricostruire un ponte, se e dove farne uno nuovo, se e dove far passare (ancora) le grandi navi, che fare del waterfront di Marghera, che fare del porto, se dove e come innovare, su quale modello economico investire. Così, tra frammentazione di poteri, veti, controveti, conflitti, interessi e conflitti d’interesse, è più facile che Venezia passi per la cruna di un ago che la politica salga al settimo cielo per essere riuscita a realizzare qualcosa. Certo, in questi decenni qualcosa si è fatto (solito Mose «a parte»), perfino con un risiko la cui gestione sembra più difficile di quella dell’Onu. Fatto soprattutto con le Leggi speciali, valangate di soldi spesi più o meno bene che comunque una logica l’avevano. Anche quando i governi locali erano di colore diverso da quello nazionale. Ma ora sta succedendo qualcosa di molto peggio, perché le contrapposizioni avvengono all’interno dello stesso governo. Tragicomico quanto accaduto in questi ultimi giorni, nei quali abbiamo assistito all’accelerazione, se non della morte di Venezia, della sua crioconservazione. Rigida come un pesce congelato. A beneficio dei decisori del futuro. Venezia, in questa fine estate al centro delle attenzioni del mondo per la Mostra del Cinema – unico elemento di vita e perpetuo avverarsi di un grande progetto culturale assieme alle altre Biennali - sta assistendo alla schizofrenia programmatica della coalizione LegaCinque Stelle. Il massimo della discrasia mai vista dal tempo dei Dogi. L’argomento è quello delle grandi navi e del porto, diciamo un bel pezzo di Pil oltre che di polemiche. Un giorno il ministro M5S Toninelli si fa intervistare e si dice d’accordo con l’ipotesi
che le grandi navi (quelle di mega-stazza, da 90 tonnellate in su) attracchino a Marghera. Ipotesi di compromesso – grandi navi a Marghera, piccole in Marittima - già raggiunto dopo lunghe trattative e conclavi a Roma e in procinto di decollare. Naturalmente sempre con i tempi lagunari. Apriti cielo, il giorno successivo i Cinque Stelle nostrani insorgono e con qualche imbarazzo la polemica rientra. Il ministro si allinea ai suoi: i «bestioni» fuori dalla laguna. Il sasso è lanciato e la morale della storia è che con questo veto il business delle crociere e alcune migliaia di posti di lavoro sono a rischio. Mai paura, però. Arriva Salvini, l’altro ministro (Interni) e vice premier leghista. Narrazione opposta: sì alle grandi navi, sì al Pil del turismo, il porto non si tocca, la Venezia di Salvini è salva. Finita qui? Nemmeno per sogno. Ieri è stato il turno del ministro alla Cultura Bonisoli, Cinque Stelle con una via di mezzo fra le posizioni gialloverdi del governo Carioca. No alle grandi navi in laguna (e quindi a Marghera) ma l’industria della crocieristica va salvaguardata. Cosa difficile, con le grandi stazze fuori. Dove le mettiamo? Una possibile soluzione – ipotesi by ministro Toninelli - potrebbe essere il porto di Chioggia. Che però un porto attrezzato e capiente come quello di Venezia non ha. A meno, ironizza qualcuno, di far correre le grandi navi sulla Romea e farle raggiungere Marghera da terra. Certo, bisogna dare tempo al tempo. E soprattutto permettere a chi non ha mai governato di poterlo fare anche alla luce degli scandali che Venezia hanno attraversato. E’ il minimo sindacale del cambiamento. Ne abbiamo viste di tutti i colori e ora, appunto, tocca ai colori gialloverdi. Ma se l’inizio è questo, Venezia sembra avviata ancor più rapidamente verso il suo destino. L’immobilismo. La sua irriformabilità. La sua metafisicità. Una città-teatro il cui sipario si alza al mattino e cala la sera dopo una recita che sa sempre meno di vita. Il suo destino. Galleggiare in una bolla dove non si sa bene se deve o non deve succedere qualcosa, se conviene o non conviene che accada qualsiasi cosa.