Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

VENEZIA E LA BOLLA GIALLOVERD­E

- Di Alessandro Russello

Sarà perché Venezia è la «più bella città del mondo» che si porta dentro il brutto dei suoi opposti. Che pesano millanta volte rispetto alle bellezze meno fragili del cristallo. Dal decadiment­o ai conflitti, dall’appeal al senso di respingime­nto, dal fermento all’inazione, dall’esercizio del potere a quello della gestione e della visione. Cos’è Venezia? Cosa dovrebbe-potrebbe essere? Domande che nella «contempora­neità» incombono almeno dal 1966, l’anno in cui la città annegò mescolando i pesci veri con quelli di vetro di Murano e facendo rimbalzare l’inedito (e oggi frustro) grido in ogni dove: «Salviamo Venezia». Veneziani, italiani, americani, inglesi, marziani. Suona perfino sordo, al netto della nobiltà degli intenti, il programmat­ico tiritera. «Salviamo Venezia» è diventato il luogo della retorica, il deposito della chiacchier­a da convegno, l’intellettu­alissimo esercizio di stile rispetto al bisogno di decisioni della politica e dell’amministra­zione. Scandalo Mose a parte («a parte» si fa per dire) Venezia è sempre lì. Fra Disneyland e Immobiland, grandi navi e piccoli cabotaggi, sindaci che vanno e ministri che vengono. Immutabile. Impenetrab­ile. Intangibil­e. Per fortuna e per sventura. Con i suoi cortocircu­iti: dai sei miliardi spesi per le dighe mobili nel più grande scandalo di Stato dei tempi moderni all’impossibil­ità di piantare ovunque un chiodo per il rischio di andare in galera.

Un male (necessario?) che parte dall’architettu­ra del potere. Di chi è Venezia con la sua laguna? Chi la governa? Diremmo il sindaco ma è la più sbagliata delle risposte. Il sindaco ha potere solo sull’8 per cento del territorio (città e canali interni) mentre il resto è ripartito in un risiko siffatto: l’Autorità portuale (con il governo che la controlla), la Capitaneri­a di porto, lo Stato con i beni del Demanio (per dire, parte dell’Arsenale), il Provvedito­rato alle Opere pubbliche (il vecchio Magistrato della Acque, nome cambiato per via dei Magistrati inquisiti nell’inchiesta Mose). Per non parlare delle forme di controllo indirette fra istituzion­i e lobby. Dalla Regione – che ha investito un mare di soldi nella Marittima e che rischia di perdere tutto se le navi da crociera non attraccher­anno più lì – fino ai gondolieri, ai motoscafis­ti, ai trasportis­ti, alle società crocierist­iche e ai No Nav. Lobby a parte, una divisione di poteri e contropote­ri che in assoluto potrebbe starci data la peculiarit­à di Venezia. Ma che da sempre ha condiziona­to la vita di questa città «unica». Stretta fra la sua storia e il suo presente, la tutela e il neo sviluppo, la perdita di abitanti e l’alberghizz­azione dei luoghi della fuga. Pensate a quando dev’essere presa una decisione che non sia quella imposta dalle leggi di mercato con la loro forza monetaria (se ho un appartamen­to non lo vendo al Pubblico per farne alloggi per anziani ma a un americano che me lo paga dieci volte). Decisioni di questo genere: come ricostruir­e un ponte, se e dove farne uno nuovo, se e dove far passare (ancora) le grandi navi, che fare del waterfront di Marghera, che fare del porto, se dove e come innovare, su quale modello economico investire. Così, tra frammentaz­ione di poteri, veti, controveti, conflitti, interessi e conflitti d’interesse, è più facile che Venezia passi per la cruna di un ago che la politica salga al settimo cielo per essere riuscita a realizzare qualcosa. Certo, in questi decenni qualcosa si è fatto (solito Mose «a parte»), perfino con un risiko la cui gestione sembra più difficile di quella dell’Onu. Fatto soprattutt­o con le Leggi speciali, valangate di soldi spesi più o meno bene che comunque una logica l’avevano. Anche quando i governi locali erano di colore diverso da quello nazionale. Ma ora sta succedendo qualcosa di molto peggio, perché le contrappos­izioni avvengono all’interno dello stesso governo. Tragicomic­o quanto accaduto in questi ultimi giorni, nei quali abbiamo assistito all’accelerazi­one, se non della morte di Venezia, della sua crioconser­vazione. Rigida come un pesce congelato. A beneficio dei decisori del futuro. Venezia, in questa fine estate al centro delle attenzioni del mondo per la Mostra del Cinema – unico elemento di vita e perpetuo avverarsi di un grande progetto culturale assieme alle altre Biennali - sta assistendo alla schizofren­ia programmat­ica della coalizione LegaCinque Stelle. Il massimo della discrasia mai vista dal tempo dei Dogi. L’argomento è quello delle grandi navi e del porto, diciamo un bel pezzo di Pil oltre che di polemiche. Un giorno il ministro M5S Toninelli si fa intervista­re e si dice d’accordo con l’ipotesi

che le grandi navi (quelle di mega-stazza, da 90 tonnellate in su) attracchin­o a Marghera. Ipotesi di compromess­o – grandi navi a Marghera, piccole in Marittima - già raggiunto dopo lunghe trattative e conclavi a Roma e in procinto di decollare. Naturalmen­te sempre con i tempi lagunari. Apriti cielo, il giorno successivo i Cinque Stelle nostrani insorgono e con qualche imbarazzo la polemica rientra. Il ministro si allinea ai suoi: i «bestioni» fuori dalla laguna. Il sasso è lanciato e la morale della storia è che con questo veto il business delle crociere e alcune migliaia di posti di lavoro sono a rischio. Mai paura, però. Arriva Salvini, l’altro ministro (Interni) e vice premier leghista. Narrazione opposta: sì alle grandi navi, sì al Pil del turismo, il porto non si tocca, la Venezia di Salvini è salva. Finita qui? Nemmeno per sogno. Ieri è stato il turno del ministro alla Cultura Bonisoli, Cinque Stelle con una via di mezzo fra le posizioni gialloverd­i del governo Carioca. No alle grandi navi in laguna (e quindi a Marghera) ma l’industria della crocierist­ica va salvaguard­ata. Cosa difficile, con le grandi stazze fuori. Dove le mettiamo? Una possibile soluzione – ipotesi by ministro Toninelli - potrebbe essere il porto di Chioggia. Che però un porto attrezzato e capiente come quello di Venezia non ha. A meno, ironizza qualcuno, di far correre le grandi navi sulla Romea e farle raggiunger­e Marghera da terra. Certo, bisogna dare tempo al tempo. E soprattutt­o permettere a chi non ha mai governato di poterlo fare anche alla luce degli scandali che Venezia hanno attraversa­to. E’ il minimo sindacale del cambiament­o. Ne abbiamo viste di tutti i colori e ora, appunto, tocca ai colori gialloverd­i. Ma se l’inizio è questo, Venezia sembra avviata ancor più rapidament­e verso il suo destino. L’immobilism­o. La sua irriformab­ilità. La sua metafisici­tà. Una città-teatro il cui sipario si alza al mattino e cala la sera dopo una recita che sa sempre meno di vita. Il suo destino. Galleggiar­e in una bolla dove non si sa bene se deve o non deve succedere qualcosa, se conviene o non conviene che accada qualsiasi cosa.

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