Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Centri antiviolenza contro i domiciliari «Sono diventati la falla del sistema»
VENEZIA «Non è solo una questione di norme, ma di applicazione delle stesse: bisogna rendere più sicuri i percorsi di protezione delle donne». Parole di Patrizia Zantedeschi, presidente del Centro antiviolenza di Padova, che segue 900 donne all’anno, con venti operatrici tra psicologhe e avvocatesse e dieci volontarie. «La tutela delle vittime e dei loro figli dev’essere la priorità — prosegue —. E invece ci sono concetti elementari non ancora assimilati dal sistema Tribunali-forze dell’ordine-Servizi sociali, come per esempio il grave rischio corso dalla persona oggetto di abusi quando il suo aguzzino esce dal carcere per andare ai domiciliari. E ha 24 ore di tempo per completare il tragitto, durante le quali è libero. Per non parlare della frase che spesso ci sentiamo ripetere: ormai è ai domiciliari, da lì non si muove. E invece si muovono tutti. Per non parlare di ciò che accadeva nel passato recente, ovvero mariti condannati a scontare i domiciliari a casa con la moglie che avevano massacrato di botte. Buchi nel sistema intollerabili», chiude Zantedeschi.
Nelle stesse ore arriva la notizia che Natalino Boscolo Zemello, lo scorso 8 agosto responsabile dell’omicidio della moglie nella loro casa di Cavarzere, resta in cella. Ieri il Tribunale del Riesame di Venezia ieri ha infatti rigettato il ricorso presentato dal suo avvocato Andrea Zambon, che aveva chiesto l’annullamento della misura cautelare in carcere e il ritorno ai domiciliari. Ma l’ira della politica per l’ultima tragedia annunciata non si placa. «Stavolta non possiamo imputarla al silenzio della vittima,che aveva chiesto protezione — dice Manuela Lanzarin, assessore al Sociale — tanto da far condannare il suo persecutore. Le misure cautelari si sono rivelate insufficienti o forse inadeguate. E’ necessaria una riflessione sul modo migliore di proteggere la donna che ha il coraggio di denunciare. La Regione e lo Stato stanno investendo molto nel potenziamento della rete dei Centri antiviolenza e delle case rifugio e nella formazione delle sentinelle del territorio, cioè operatori sociali e del Pronto soccorso, medici, farmacisti, vigili e forze dell’ordine. Ma tutto ciò deve trovare sponda in leggi e in procedure di tutela della donna più attente e severe». D’accordo Antonio De Poli, senatore dell’Udc: «C’è un problema gigantesco che non possiamo più far finta di non vedere: le donne che denunciano vanno protette, non lasciate sole».
Incalza Cristina Guarda, consigliere regionale della Lista AMP: «È assurdo che persone violente siano condannate solo agli arresti domiciliari. Chiederò alla Regione di monitorare le esigenze espresse dai Centri anti-violenza e mi auguro che il Veneto faccia da apripista, spronando la politica nazionale a un intervento legislativo serio ed efficace». Guarda ha sottoscritto l’interrogazione a risposta immediata presentata dal Pd, primo firmatario Andrea Zanoni, per chiedere che «la Regione si costituisca parte civile nei processi per femminicidio e violenza di genere». «Prendiamo esempio da chi l’ha già fatto, come le Regioni Friuli e Puglia nel 2017 o, più recentemente, il Comune di Jesolo nell’eventuale processo nei confronti dell’uomo accusato di aver stuprato una 15enne — dice Zanoni —. Il Veneto è al terzo posto nella triste graduatoria dei femminicidi, dietro Lombardia ed Emilia: ne conta già 13».
Ferma Alessandra Moretti, consigliere del Pd: «È inammissibile che l’assassino fosse latitante da luglio e nessuno si sia preoccupato della sicurezza della moglie. Nel giro di un mese in Veneto ci sono state tre vittime, oltre a stupri e altre aggressioni. Un bollettino drammatico, in continuo aggiornamento. La politica deve fare la sua parte: noi abbiamo presentato una proposta di legge per il reddito di libertà, un sostegno economico per aiutare le donne nell’inserimento lavorativo finalizzato all’acquisizione della propria autonomia».