Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Litt, l’ex ghostwrite­r di Obama a Cortina e Pordenonel­egge

L’ex ghostwrite­r di Obama incontra il Nordest: «Io, Barack e l’America». L’incipit del saggio

- di David Litt

«Quel figlio di buona donna sbanda!» Il tizio che si sta sporgendo fuori dal finestrino non si rende conto di gridare al corteo presidenzi­ale. Probabilme­nte non gliene importa granchè. È il 20 gennaio del 2016 e sul distretto di Columbia sono caduti quasi tre centimetri di neve. Quanto basta a far precipitar­e la capitale del paese nel caos. Siamo tra Frozen e Mad Max. Non è previsto che un presidente resti bloccato nel traffico. È uno dei vantaggi del mestiere. Quella sera, tuttavia, è un’eccezione. L’improvvisa tempesta di neve che ha gettato nello scompiglio le strade di Washington ha costretto a terra l’elicottero del presidente. E non c’è stato nemmeno il tempo di ripulire una strada per far transitare la sua auto. L’esercito non ha potuto offrirgli di meglio che un upgrade. Di norma POTUS viaggia sulla Bestia, un carro armato travestito da limousine, ma con tutto quel ghiaccio sulle strade hanno pensato che fosse preferibil­e una buona aderenza alla spessa corazza d’acciaio. Barack Obama è pur sempre il comandante supremo. I mercati si muovono in base alle sue decisioni. E a un suo ordine una nazione può essere rasa al suolo. Ma quella sera Barack Obama è solo un padre di famiglia su un suv che cerca di tornare a casa in tempo dopo una giornata di lavoro. Per fortuna ha un mezzo dotato di quattro ruote motrici. I membri meno importanti del suo staff come me viaggiano su normali pulmini da quindici posti. Slittiamo come matti. Non mi ero aspettato di lasciare la base aerea di Andrews per finire a piè pari in una metafora, ma è andata proprio così. Washington è sempre intasata, non c’è scampo. Procediamo con esasperant­e lentezza. Sembra la perfetta conclusion­e per il mio ultimo viaggio con POTUS: sono sicuro che stiamo andando nella giusta direzione ma temo che le ruote possano staccarsi dal pulmino. Mentre carambolia­mo verso una fila di macchine parcheggia­te, sento il nostro esperto improvvisa­to dire la sua senza farsi troppi problemi. «Quel figlio di buona donna adesso sbanda!». Malgrado tutto, riprendiam­o il controllo. Procediamo, lenti ma inesorabil­i.

Imbarcando­mi sull’aereo, quella mattina, pensavo più agli snack che al simbolismo. Un tempo salire sull’Air Force One era come entrare in un armadio e ritrovarsi nel fantastico mondo di Narnia. Ma nel momento in cui stavo per affrontare il mio ultimo volo era diventata pura routine. Sali sulla scaletta, attraversi la sala riunioni, prendi una manciata di uva dalla ciotola piena di frutta. Appendi la giacca nell’armadietto, tiri fuori il cavo Ethernet, freghi una confezione di m&m’s presidenzi­ali. Ordini un caffè freddo, estrai il poggiapied­i, ti appunti la spilla smaltata per ricordare agli agenti del Secret Service che non ti devono sparare. A quel punto cerchi di dare una sistemata finale al discorso prima di pranzo.

Ogni volta che vedevo POTUS mangiare sull’aereo aveva sempre davanti qualcosa di sano, in genere petto di pollo e verdura. Noialtri, invece, mangiavamo cibo che immaginavo preparato da cannibali con l’intento di farci ingrassare. Erano pasti ipercalori­ci, i menu erano pieni di aggettivi. Quella mattina, nel breve volo fra Andrews e Detroit, ci avevano servito un brie cremoso con pancetta croccante su fette tostate di pane all’aglio. Mentre la rucola fresca era ricoperta di pepe e scaglie di parmigiano. Una volta avevo sollevato l’argomento con Ted, uno dei membri dell’equipaggio. Perché anche i piatti leggeri venivano coperti di bacon fritto o cosparsi di formaggio fuso? «Un esercito marcia con quello che ha nello stomaco» aveva risposto. Cosa forse vera per un vero esercito, soldati in carne e ossa che coprono grandi distanze e bruciano calorie ammazzando gente. Ma io, che scrivevo solo discorsi, non marciavo. Le pallottole del nemico non erano una mia preoccupaz­ione. Semmai lo erano la pesantezza e il torpore della digestione. A bordo dell’aereo presidenzi­ale mi rimpinzavo di cotolette di maiale e tartine di granchio, o enormi vasetti di crema di formaggio che, sorprenden­temente, venivano considerat­i degli snack. Dopo aver dato gli ultimi ritocchi al discorso, mi sarei premiato con uno di quei Twix o Snickers ridicolmen­te grandi che stavano in bella mostra sul vassoio dei dolci vicino al finestrino. Ma poi c’erano anche i veri dessert. Chi può dire quanti semifreddi alla fragola, quante torte di noci o di mele, quanti brownie strepitosi mi sono spazzolato mentre ero al servizio del mio paese?

Se dieci anni prima mi aveste domandato cosa avrei fatto a ventinove anni, di certo non vi avrei risposto: ostruirmi le arterie sull’Air Force One. Sono andato a Yale, una di quelle università prestigios­e alle quali un cospicuo numero di studenti si è candidato fin dalla nascita. Ma non io.

Avevo immaginato di passare i miei vent’anni a spremere ogni goccia di avventura dalla vita. Avrei attraversa­to a piedi remoti paesaggi, avrei imparato nuove lingue e sviluppato degli addominali da urlo. Avrei fatto tremare le istituzion­i. Le avrei sovvertite o trascese. Ma non ne avrei mai fatto parte. Sarebbe stato patetico. Eccomi dieci anni dopo. Non ho fatto neanche un viaggio alla scoperta di me stesso. In compenso possiedo una cospicua collezione di cravatte, tengo nel portafogli­o una spessa pila di biglietti da visita e una pila di riserva ancora più spessa in valigia. Ogni volta che volo per lavoro un ufficiale dell’aviazione mi porge un asciugaman­o caldo e si rivolge a me, senza ironia, dicendo «sir».

Se mi distraggo comincio anche a pensare che me lo merito. Ma gli eventi trovano sempre il modo di far abbassare la cresta ai membri dello staff presidenzi­ale. Due mesi prima del viaggio a Detroit andai a vedere il presidente Obama che registrava il messaggio settimanal­e alla nazione. In genere me ne stavo in disparte in un angolo, ma quella volta, per ragioni che ora mi sfuggono, mi sedetti in prima fila e al centro. Quando POTUS lanciò un’occhiata al gobbo incrociamm­o casualment­e lo sguardo. Poche cose sono più spiacevoli che fare a gara con il presidente a chi distoglie per primo lo sguardo. In quel momento però, avendo iniziato, non sapevo come uscirne. Pensai di abbassare gli occhi, come una timida fanciulla in un romanzo di Jane Austen, ma questo avrebbe solo fatto crescere l’imbarazzo. Continuai a guardare il presidente Obama. E il presidente Obama continuò a guardare me. Alla fine, dopo un lasso di tempo che a me parve infinito, mi parlò. «Cosa ci fai tu qui?» Non era propriamen­te infastidit­o. Sembrava solo che non si aspettasse di vedermi lì, un po’ come uno può sorprender­si nel trovare il cane in salotto anziché nella sua cuccia. Qualsiasi altro mio collega avrebbe gestito la situazione con scioltezza. Magari avrebbe tentato un nobile approccio: «Sono qui per servire il mio paese». O l’avrebbe buttata sul ridere: «Spero di beccare i refusi». Invece andò così: dapprima, sforzandom­i malamente di sembrare disinvolto, rivolsi al leader del mondo libero il sorriso di un serial killer quando capisce che la festa è finita. Poi dissi: «Oh, sto solo guardando». POTUS inspirò brevemente dal naso, poi inarcò le sopraccigl­ia, guardò il cameraman e sospirò. «Mi mette ansia avere Litt fra i piedi». Sono quasi sicuro che il presidente Obama stesse scherzando...

Doppio appuntamen­to a Nordest per il ghostwrite­r di Obama. Oggi David Litt è a «Pordenonel­egge la festa del libro con gli autori» allo Spazio Itas a Pordenone (ore 17.30) per presentare il libro «Grazie, Obama. I miei anni alla Casa Bianca. Memorie semiserie di un giovane scrittore di discorsi» (HarperColl­ins).

Domani Litt sarà protagonis­ta con il suo libro a «Una Montagna di Libri» a Cortina al Cristallo Resort & Spa (ore 18). Pubblichia­mo per gentile concession­e dell’autore uno stralcio del libro

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