Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

«Io, geometra vinsi l’Olimpiade imitando gli africani»

Era il 2 ottobre 1988 e la maglia azzurra 579 baciò per primo il traguardo

- Di Daniele Rea

PADOVA Sei geometra capocantie­re ma ti senti corridore degli altopiani. Sei nato a Longare, provincia di Vicenza, sì, ma potresti aver visto la luce nella Rift Valley. Dentro hai la spinta della corsa, naturale come camminare, fin da quando da bambino, a scuola, doppiavi tutti nelle campestri e la gambe andavano da sole, veloci e leggere.

Succede se sei Gelindo Bordin. E allora devi decidere. Perché le gare di cross e su strada dagli orizzonti chiusi non ti bastano più, perché la tua fissa è diventare il numero uno. Ci credi, sai di aver ragione e tanto basta. E allora a 25 anni molli tutto, fai della corsa la tua profession­e, ti applichi come un fachiro sui chiodi, sudi sangue e in quattro anni vinci tutto quello che c’è da vincere sulla maratona. La corsa che è la summa dell’atletica, la gara regina, 42.195 chilometri dove incontri i tuoi sogni ma dove sbatti anche negli incubi peggiori, nei fantasmi. Oppure acchiappi il trionfo e baci la pista nella prova olimpica. Trent’anni fa, il 2 ottobre 1988, il vicentino Bordin si metteva al collo l’oro olimpico nella maratona di Seul, primo italiano a trionfare nella gara delle gare. Nel 2004 lo imiterà Stefano Baldini sulle strade di Atene. Ma quella di Bordin resta scolpita nella memoria come uno dei momenti più alti, più intensi e più emozionant­i per chi ama lo sport.

Bordin, come fa un anonimo capocantie­re di Longare a diventare, da buon amatore, il re della maratona?

«Con talento naturale, ovvio, ma anche con tanta convinzion­e nei propri mezzi. Sentivo di poter fare qualcosa di importante e allora, nel 1984, a 25 anni, ho deciso di cambiare vita. Di fare dell’atletica una profession­e, insomma».

E così lascia il posto di lavoro e da Verona va a Tirrenia...

«Sì, a Tirrenia c’era Luciano Gigliotti, che sarebbe diventato il mio coach. Volevo una persona che avesse obiettivi alti, come i miei. Ho lasciato il posto da geometra, dove pure prendevo uno stipendio di oltre due milioni e mezzo al mese. Era davvero una signora cifra, all’epoca».

Nessuno, tra amici e familiari, ha cercato di farle cambiare idea?

«Non direi, anzi. Ero io piuttosto che mi dicevo “Gelindo, ma cosa diavolo stai facendo?”... Però, come dicevo, ho avuto il sostegno di chi mi stava attorno, è stato importante».

L’incontro con Gigliotti? «Sono andato da lui e gli ho detto: mollo tutto ma devo diventare il numero uno al mondo. Lui mi ha cambiato, a cominciare dalle abitudini alimentari, diciamo...» Cioè?

«Eh, io andavo nei cantieri prestissim­o la mattina, da buon veneto talvolta ero abituato a farmi un bel caffè con la grappa...»

La reazione?

«Mi ha detto: Gelindo, il resto lo vediamo poi, intanto però la grappa la lascerei stare».

Ed è iniziato un periodo di allenament­i scientific­i, durissimi ma che hanno portato a breve risultati straordina­ri...

«Sì, sono stati anni molto duri ma che ho affrontato con grande determinaz­ione e con un’applicazio­ne totale».

Nel 1986 il primo trionfo, l’oro agli Europei di Stoccarda davanti a Pizzolato. «Orlando ha provato a staccarmi due volte, io sapevo che se fossi stato con lui fino agli ultimi due chilometri lo avrei battuto: le mie origini da crossista mi davano uno spunto che pochi avevano». L’anno dopo i Mondiali di Roma: un bronzo che ha lasciato l’amaro in bocca?

«Era una giornata afosa, avevo l’ossessione del caldo perché con le alte temperatur­e facevo fatica. Mi sono scosso tardi, ho fatto un diecimila velocissim­o e ho preso il terzo posto, davanti però erano già andati».

E arriviamo al 1988, all’oro olimpico. Da dove partiamo? «Dalla preparazio­ne: durissima, mi prendevano per pazzo. Facevo anche 250 km a settimana. Ma io sapevo chiedere molto al mio fisico e sapevo che avrei avuto le risposte che volevo. Ero pesante per essere un maratoneta e allora mi dicevo: Gelindo, devi allenarti come gli africani e poi un po’ di più».

Chi ha vissuto quella gara, ricorda soprattutt­o gli ultimi cinque chilometri: il quarto d’ora più lungo della sua vita?

«Direi di sì, eravamo in tre, Wakiihuri ha accelerato, poi Salah ha fatto uno strappo pazzesco, un chilometro in leggera salita a 2’52”... Lì è andato fuori giri, il keniano lo ha seguito e io, dietro, ho capito che il loro passo si faceva più corto. Ho aumentato, li ho ripresi uno alla volta e poi li ho staccati».

Sembrava andare a velocità doppia rispetto ai suoi avversari. Grande gestione?

«Mi ero tenuto una riserva in caso di arrivo in volata, non potevo prevedere il finale».

L’ultimo chilometro, mille metri di passione: cosa ricorda?

«L’ingresso nel tunnel dello stadio, buio e silenzio: poi la pista e il boato pazzesco della

Il caffè corretto Andavo nei cantieri prestissim­o la mattina ed ero abituato a bermi un bel caffè con la grappa. Per cui quando andai da Gigliotti dissi: mollo tutto ma devi fare di me il numero uno al mondo. Lui disse: iniziamo dalla dieta...

folla. Emozioni che non puoi descrivere, impossibil­i da capire senza provarle».

Il ricordo degli sportivi va al suo sorriso, a metà tra la felicità e il dolore, e al bacio alla pista un metro dopo il traguardo.

«Ero consapevol­e di avercela fatta ma la fatica era spaventosa a quel punto, pur se mentalment­e mi ero sciolto. Il bacio alla pista mi è venuto così, se avessi saputo che rialzarmi mi avrebbe provocato uno stillicidi­o di crampi non l’avrei fatto di sicuro».

Al ritorno grandi feste per lei?

«Sì, una di seguito all’altra: a Milano dove abitavo, poi a Verona, a Vicenza, a Longare... mi presi un periodo sabbatico, diciamo».

Nel 1990 la doppietta: oro agli Europei a Spalato e vittoria a Boston...

«Due belle vittorie, di cui sono molto orgoglioso. Soprattutt­o quella alla maratona di Boston: primo italiano a vincere e primo atleta a farlo da campione olimpico».

Bordin, e il 2h01’39” di Kipchoge a Berlino?

«Sta nell’evoluzione naturale degli atleti, nella preparazio­ne, nell’alimentazi­one, nei supporti tecnici. In fin dei conti un milione di anni fa scendevamo dalle piante e iniziavamo a camminare a quattro zampe».

Cosa consiglier­ebbe a un ragazzo che volesse provare a diventare un nuovo Bordin?

«Di lavorare sempre duro e di non aver paura del confronto ad altissimo livello, con tutti. Se devi puntare un gettone, punta forte: e se dovesse andar male, puoi sempre tornare a fare il geometra».

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La sequenza Gli ultimi metri della maratona trionfale di Gelindo Bordin. E il celeberrim­o bacio alla pista
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