Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Marini: «Jacopo e la sua Venezia, opera totale»
Un ventenne che sfida la tradizione e già dimostra tutto il suo talento e la sua ambizione: alle Gallerie dell’Accademia l’epopea tintorettiana si mostra agli esordi e prova a sorprenderci. Paola Marini, direttrice delle Gallerie, ci accompagna dentro «Il giovane Tintoretto», che ha curato assieme a Roberta Battaglia e Vittoria Romani.
Questa vuole essere una mostra di ricerca. Quali nuovi sguardi si possono aprire?
«Innanzitutto racconta il contesto in cui Tintoretto comincia a esprimersi e in particolare si focalizza su dieci anni, dal 1538 al 1548, della sua produzione d’arte. È da tener presente che sulla formazione di Tintoretto e i suoi primi anni di artista molte cose non sono chiare o non ci sono documenti. Ad esempio, su una tela che noi consideriamo molto importante, la Contesa tra Apollo e Marsia, altri studiosi nutrono dubbi circa l’autografia e la datazione. È un dibattito ricco e vivace. Abbiamo voluto omaggiare gli studi di Rodolfo Pallucchini il cui contributo del 1950 e quelli successivi restano dei capisaldi. E poi siamo entrate nell’opera di questo giovane Tintoretto in modo innovativo, ad esempio mettendo a confronto la sua Ultima Cena di San Marcuola con le Cene realizzate da Giuseppe Porta Salviati e da Jacopo Bassano negli stessi anni. E infine il visitatore si può immergere ne Il miracolo dello schiavo del 1548».
Ovvero il capolavoro che lo consacra a 30 anni.
«È un dipinto di incredibile bellezza e complessità. Spesso si dice che quel dipinto abbia uno sfondo veronesiano. Ma Paolo Veronese nel ‘48 realizza pochissime opere; la Pala Bevilacqua è del ‘46 e arriva a Venezia nel ‘51. Dunque è vero il contrario: Tintoretto anticipa quello sfondo monocromo, quelle virtù adagiate sopra il frontone, quel giardino che ritorna tante volte nel Veronese. E poi c’è un punto affascinante: la tela è dipinta per la Scuola Grande di San Marco, su una parete con due grandi finestre ai lati. Anche Tiziano, a sua volta, si ritrova a lavorare in controluce, per l’Assunta ai Frari e per la Battaglia di Cadore a Palazzo Ducale. È come se uno dei grandi temi della pittura pubblica del ‘500 veneziano fosse la sfida della luce pittorica con la luce naturale degli edifici».
Il giovane Tintoretto riesce a rompere la tradizione. È uno strappo che coinvolge tutta la sua generazione?
«Potremmo dire un Sessantotto: è una rottura con la tradizione allora centrata su Tiziano e sui cicli narrativi raccolti nelle Scuole Grandi di cui l’ultimo interprete è Bonifacio De’ Pitati con la decorazione del Palazzo dei Camerlenghi. Tra gli anni ‘30 e ‘40 del ‘500 qualcosa cambia radicalmente, con la diffusione del linguaggio manieristico. In particolare tra il ‘42 e il ‘44 i colori si fanno più violenti, le linee graficamente più eleganti. Decisivo è l’arrivo di un’onda di artisti che dopo il Sacco di Roma si spostano verso il nord con sensibilità e linguaggi nuovi. Superato quel nodo, ci si inoltra verso un nuovo naturalismo, che ogni artista arricchisce a proprio modo».
A quel punto Tintoretto sembra mettere a lavoro l’intera città.
«Quella di Tintoretto sembra un’opera totale: Venezia gli appare come un grande palcoscenico e lui, che tanto frequenta il teatro e la musica, si comporta come il suo scenografo. Nessun altro artista riesce a esprimere una simile visione totale. Oggi possiamo contare ben 29 siti che conservano dipinti di Tintoretto, tre dei quali veri e propri fuochi: la Scuola Grande di San Rocco, Palazzo Ducale e la chiesa della Madonna dell’Orto. Per questo è così importante che il progetto per i 500 anni sia unitario e articolato in tutta la città»..
Tris di donne
A curare le mostre su Tintoretto sono Paola Marini, Roberta Battaglia e Vittoria Romani