Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Porto Marghera, la firma a Roma: 27 milioni pronti per la riconversione
Zaia, Brugnaro e Musolino al Mise per la firma con il vicepremier Luigi Di Maio Il riconoscimento dell’area di crisi complessa e 59 progetti d’impresa già sul tavolo Manovra, urgono correttivi
ROMA Per la firma in calce, sotto a quella del ministro del Lavoro Luigi di Maio, hanno raggiunto tutti palazzo Piacentini, d’altronde con quasi 27 milioni di euro in gioco – soldi attesi da anni – non era il caso di farsi desiderare. Ieri mattina, a Roma, il governatore Luca Zaia, il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, il presidente dell’autorità portuale Pino Musolino e i rappresentanti della Presidenza del consiglio dei ministri, dall’agenzia nazionale per le Politiche attive del lavoro, dai ministeri dell’Ambiente, della Tutela del territorio e del mare e delle Infrastrutture hanno finalmente sottoscritto l’accordo di programma che dovrebbe rendere realtà il progetto di riconversione e riqualificazione industriale per Porto Marghera. «Questo accordo – ha commentato Brugnaro - rappresenta non solo un segnale di grande attenzione per Venezia ma anche un esempio collaborazione tra istituzioni a favore delle aziende e degli imprenditori che vogliono investire sul territorio e creare nuovi posti di lavoro». Di fatto, si tratta della fase operativa che segue il riconoscimento della zona industriale veneziana nel novero delle «aree di crisi complessa», ovvero quei territori dove l’industria c’era e, ad un certo punto, non c’è più stata, lasciando dietro di sé solo relitti industriali, inquinamento e disoccupazione. Come Marghera, anche Gela, Termini Imerese, Taranto, Porto Torres, Piombino. Un riconoscimento poco invidiabile, insomma, ma utile: con l’accordo di programma firmato ieri nella sede del Mise si sbloccano 26,7 milioni di euro – in gran parte provenienti proprio dalle casse del ministero, i restanti 6,7 da quelle della Regione Veneto – con cui sarà possibile aiutare chi, a Porto Marghera, il lavoro intende invece riportarcelo. Iniziative e investimenti privati che, se compresi tra 1,5 e 20 milioni di euro, potranno accedere a fondi ministeriali e regionali (questi ultimi, però, saranno destinati soprattutto a chi saprà spingere maggiormente sulle ricadute occupazionali). Il limite non è da intendersi come tassativo: nel caso di piani di investimento massicci, infatti, si cercherà una soluzione per intervenire comunque, magari seguendo il modello già sperimentato con la Pilkington, che proprio nei mesi scorsi ha riacceso il suo altoforno e ha potuto contare su un aiuto cucito su misura nella forma di un contratto di sviluppo. È infine previsto un sostegno per le piccole e medie imprese del manifatturiero e dei servizi che siano alle prese con i bandi regionali Por Fesr.
«Dopo il necessario passaggio alla corte dei Conti partirà la realizzazione degli interventi utili ad avviare una nuova fase di crescita del tessuto industriale – ha spiegato ieri Zaia, uscendo dagli uffici di via Vittorio Veneto – Questo è il risultato del buon lavoro fatto, dell’ottima collaborazione con il Mise e della “call” promossa di Invitalia, che ha misurato il grado di attrattività che l’area riveste per nuovi investimenti». Nei mesi passati si era infatti deciso di tastare il polso delle realtà imprenditoriali con una manifestazione d’interesse, raccogliendo 59 progetti, per un investimento privato totale di 556 milioni di euro, capace di attivare 895 nuovi posti di lavoro. Di questi, 43 ricadevano entro la finestra dei 20 milioni e, se confermati, potrebbero essere finanziati già nel primo bando, entro qualche mese. I restanti 16 progetti, inferiori a 1,5 milioni, potrebbero invece essere recuperati attraverso la premialità dei bandi regionali. Soddisfatto anche Musolino, che ha però specificato: «Porto Marghera è già oggi un’area vitale con mille aziende che danno lavoro a oltre 13.500 persone. Esistono però spazi dismessi che, se riconvertiti e riqualificati, possono risultare attraenti per investitori italiani ed esteri: aree già infrastrutturate a ridosso delle banchine del porto». Più aspro l’appunto dei sindacati: «Non dobbiamo dimenticare – commentava ieri Enrico Piron, segretario uscente della camera del lavoro della Cgil – che stiamo ancora aspettando la cabina di regia con tutti i soggetti».
Sul primo punto è del tutto evidente che la qualità della manovra così come sta entrando in parlamento non massimizza l’«utilità» del maggior disavanzo eventualmente concordato. Nulla può far pensare che dopo un anno di rapporto deficit/Pil al 2.4% possa aumentare stabilmente il potenziale produttivo italiano e quindi reddito ed occupazione nazionali. E non solo perché lo scenario internazionale si sta facendo meno roseo. Per evitare che la manovra si traduca solo in una effimera distribuzione di spesa pubblica finanziata a debito, occorre modificare radicalmente e per un lungo periodo la composizione della spesa prevista, spostandola dal sostegno ai consumi (tramite la distribuzione del reddito di cittadinanza e di una applicazione di quota 100 alle pensioni poco attenta all’allungarsi della vita media) al sostegno degli investimenti e delle esportazioni. Occorre poi che gli investimenti pubblici si dirigano risolutamente verso quelle infrastrutture che sole possono aumentare davvero la produttività del sistema economico italiano: sì anche Terzo valico, Gronda di Genova, Tav, Brennero, Tap, Passante di Bologna, porti di Genova, Venezia e Trieste, cioè opere da sottrarre alla burla della analisi costi benefici di comodo dietro la quale si nasconde l’irresponsabilità dei decisori istituzionalmente competenti. L’accordo Veneto-Trentino sulla Valdastico nord di ieri è un esempio ex contrario, del quale va dato atto ai governatori Zaia e Fugatti, di come sia possibile tagliare anche i nodi più incancreniti. E non basta: investimenti in manutenzioni di scuole, strade, ospedali etc. andrebbero poi eletti ad opere da affrontare con «lavoro di cittadinanza» nel quale trasformare almeno parte del reddito di cittadinanza. Il «macigno» dell’Italia nella Unione Europea sembra al momento più remoto, meno cruciale. Non lo è. E speriamo lo si capisca mano a mano che si accenderà il dibattito in vista delle elezioni europee. Oggi abbiamo un gran bisogno dell’Unione Europea non solo perché ci ha assicurato 70 anni di pace e, speriamo, continuerà a farlo, ma perché in un mondo sempre più destabilizzato dalla competizione globale tra USA e Cina, l’Italia può pensare di difendere il benessere degli italiani solo «dentro» una Unione Europea ben più unita del condominio nel quale la vorrebbero rinchiudere i sovranisti.