Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
BENETTON, LA LEZIONE DEL POPOLO
L’uomo che vuole dirigere l’orchestra deve saper voltare le spalle al pubblico. Ma allora che aspiranti direttori d’orchestra sono i nostri? Vien da chiederselo, tornando dal funerale di Gilberto Benetton, dove c’era tutto (la famiglia, gli amici, lo sport, l’industria, la finanza, il perfetto sconosciuto) tranne ciò che pretende d’infilarsi dappertutto: la politica. Vanno tolti gli indolenti, quelli che non ci sono mai salvo apparire all’improvviso alla vigilia di una ricandidatura, ma è indubbio che gli altri – e sono tanti, da perdere il conto - non si siano fatti vedere per un motivo ben preciso, che sta tutto in una data: 14 agosto 2018, il crollo del Ponte Morandi di Genova. Quel giorno ha segnato uno spartiacque per la famiglia Benetton: era la dinasty pop, illuminata e cosmopolita; s’è risvegliata parassita, cinica e scroccona. Era un vanto; è diventata una vergogna. E la politica, specchio fedele del vezzo nazionale, si è subito adeguata. Aveva annusato l’aria: il centro chiuso, piazza Duomo transennata, i timori di contestazione. Meglio stare a casa, vuoi mica correre il rischio di una foto che poi magari circola sui social per anni, viene rinfacciata, viralizzata, brandita come una clava? C’è un futuro a cui pensare e il futuro si costruisce sui voti. Ecco il punto a cui siamo arrivati: la piazza virtuale è diventata così potente da condizionare l’agenda di chi, il popolo, lo vorrebbe rappresentare nel mondo reale.
Col paradosso, evidente a chiunque fosse lì venerdì, di finire smentito proprio dalla piazza che voleva accarezzare. Il popolo c’era, altroché, numeroso, rispettoso e silenzioso (le vie di Treviso parevano irreali), prima di sciogliersi in un applauso caldo e avvolgente che solo uno stupido – o un «malato moderno» per dirla con le parole di Oliviero Toscani potrebbe confondere con un’assoluzione per i fatti di Genova. Ci sarebbe voluto il coraggio dell’impopolarità, per essere davvero popolari. Ce l’hanno avuto in pochi. Il sindaco di Treviso Mario Conte, quello di Ponzano Monia Bianchin, quello di Villorba Marco Serena. L’ex sindaco di Venezia e ministro dei Trasporti Paolo Costa. Il governatore Luca Zaia. Quest’ultimo, che è davvero uomo di popolo (cosa assai diversa dal populista), si era distinto già nelle prime ore successive alla morte di Gilberto. Il web traboccava d’odio feroce mentre lui ricordava quel che tutti dicevano prima del 14 agosto: «Se ne va un grande trevigiano, esponente di una famiglia che è diventata il simbolo stesso del made in Veneto». Dietro di lui, il vuoto. Nessuno l’ha seguito, nonostante la politica abbia solitamente il cordoglio nel ciclostile, e di più, forse le sue parole hanno contribuito a rallentare il riflusso del disprezzo, a frenare lingue e tastiere. Non una parola dai Cinque Stelle, che sempre più incarnano un certo sentimento di rivalsa contro la ricchezza e il successo, e pazienza se nel mezzo ci finisce pure il merito. Non una dalla Lega, che ha sempre avuto un rapporto muscolare con la famiglia dei Colori Uniti ma s’è scordata l’onore delle armi (e quel che Benetton ha fatto per Treviso, che del leghismo è la capitale). Non una dal Pd, anche se solo un paio d’anni fa, quando Gilberto annunciava il suo Sì al referendum, Renzi si precipitava in Ghirada accompagnato dai soliti noti schierati a favore di fotografo. Tutto cancellato: 67 mila posti di lavoro, 12 miliardi di fatturato, l’orgoglio italiano nel mondo (un anno fa Gilberto veniva insignito a New York del prestigioso Gei Award), i successi sportivi (dalla Hall of fame del basket alla Stella d’Oro del Coni). «È il silenzio degli opportunisti» si indigna la presidente degli industriali di Treviso, Maria Cristina Piovesana. «A noi basta la vicinanza delle persone comuni» ha sorriso amaro il nipote, Alessandro Benetton, mentre il padre Luciano, inghiottito dalla folla, sapeva soltanto ripetere: «Grazie, grazie a tutti». Ogni abbraccio aveva un aneddoto su Gilberto e chissà se era vero, ma chi se ne importa. C’è voluto il popolo, in assenza dei capipopolo, per ridare verità ad una storia.
Che lezione.