Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Grande Guerra, la firma dell’armistizio e i tre giorni a Villa Giusti

Nella dimora padovana 100 anni fa la firma dell’armistizio con l’Austria. Per tre giorni le delegazion­i chiuse nel salottino

- Coltro

Alle 15.20 del 3 novembre 1918 il pennino entrò nel calamaio di vetro. Uno dopo l’altro i membri della delegazion­e austriaca e italiana firmarono quel foglio che voleva dire armistizio. Qualcuno morì, italiani e austriaci, fino alle 15 del giorno dopo, momento esatto del cessate il fuoco. Ma a Villa Giusti in quel momento era finita la guerra guerreggia­ta tra Italia e Impero austro-ungarico, la guerra più sanguinosa della storia fino a quel momento. Doveva essere un mezzo segreto, un atto ufficiale con i tempi dei militari e della diplomazia, anche se fin dal primo novembre i giornalist­i erano in agguato da quelle parti. Non si sa come, non si sa chi parlò, ma si sa cosa accadde: subito dopo la firma, una manciata di minuti, la notizia uscì da quella stanza al piano nobile, e un alpino issò il tricolore non su un pennone che non c’era, ma su un albero del giardino. Bastò questo per far capire, e il parroco di Santa Maria della Mandria fece suonare le campane a distesa. Adesso tutti sapevano: prima dei giornali, prima del bollettino ufficiale con il testo del trattato, pubblicato il 7 novembre. Guerra finita, Italia vittoriosa, ma prendendos­i ventiquatt­r’ore di tempo perché le truppe italiane potessero entrare a Trento e Trieste, e migliaia di austro-ungarici restassero prigionier­i invece di tornare da soli a casa loro. Quei tre giorni a Villa Giusti del Giardino furono una partita di poker dall’esito scontato.

Visto l’andamento delle azioni militari, la delegazion­e austriaca per l’armistizio era già stata formata da un mese. Il 18 ottobre il sindaco di Padova Leopoldo Ferri firma un manifesto che inneggia alla vittoria imminente. Padova era la capitale della guerra, sede del Comando supremo a palazzo Dolfin, poi trasferito all’hotel Trieste di Abano per timore dei bombardame­nti. I francesi erano a palazzo Papafava, i britannici in quello Giustinian, la cit- tà era «un incrocio internazio­nale di soldati e di spie».

Alla fine di ottobre, le cose erano nell’aria. La delegazion­e austriaca passò le linee in Val Lagarina, in Trentino, e dopo qualche discussion­e fu trasportat­a in auto fino a Villa Giusti. Ci misero un giorno intero, anche per via di una foratura, gli austriaci arrivarono alla Mandria la sera del 31, accolti con tutti gli onori. Con il buio, non videro bene quella che Ugo Ojetti, inviato del Corriere della Sera ma anche dominus della propaganda di guerra, descrisse così: «Più brutta non si poteva trovare, ma gli austriaci la meritano. Brutta, sì, gialla, stinta e nuda, dell’Ottocento più borghese, piatto e trito che tra Pio X e De Pretis si potesse imma-

ginare». Alle 9.30 dell’1 novembre arriva il generale Pietro Badoglio, capo della delegazion­e italiana: al suo ingresso i quaranta carabinier­i di scorta sguainano le sciabole, è l’ultimo guizzo di luce. Poi tre giorni chiusi dentro, in quel salottino quasi anonimo tra due camere da letto.

Sette per parte, gli austriaci con in testa il generale Viktor Weber von Webenau, tra loro il principe Johannes von und zu Liechtenst­ein, capitano di fregata, intimo dell’imperatore Carlo, che dovette lasciare agli italiani tutte le navi austriache. L’interprete era il capitano Trenner, cognato di Cesare Battisti, impiccato dagli austriaci. Quando glielo presentaro­no, Weber disse: «Conosciamo bene questo nome».

Furono due giorni di difficile trattativa. Però il pranzo delle due delegazion­i era in comune in una saletta accanto, due stanze più in là c’era la sala da biliardo.

Gli austriaci dormivano nella villa, che aveva ospitato anche il re Vittorio Emanuele III, e Bissolati, e alte gerarchie militari. Brutta ma frequentat­a, a mezza strada tra Padova ed Abano. Una storia, quella della villa, che comincia nel Medioevo con i Capodilist­a e finisce con i conti Giusti del Giardino (il giardino c’è ancora, sei ettari) e l’eclettismo di fine Ottocento. Da Vettor Giusti del Giardino, che fu sindaco di Padova e senatore del Regno, passò alla moglie, la contessa veneziana Giulia Bianchini d’Alberigo e da lei ai pronipoti attuali proprietar­i.

Oggi, nessuno ha toccato nulla, in quel piano nobile della firma. Il tavolo quasi povero di fine ottocento, attorno quattro sedie Thonet nere, una con le gambe più corte. Dicono che fosse per il re, quando soggiornò lì. In divisa e con gli stivali il suo metro e 53 non gli faceva toccare terra con i piedi. Chissà a chi dei plenipoten­ziari toccò star seduto più basso. E’ conservato il tappeto che ricopriva il tavolo, ancora macchiato dall’inchiostro, dal tè e dal vino consumati durante le sedute. Il personale di servizio era stato scelto dall’intelligen­ce, tutti interpreti travestiti; il maggiordom­o era un ufficiale di cavalleria che sapeva perfettame­nte tedesco, francese e inglese. La trattativa fu estenuante, finché Badoglio non minacciò di mandare tutto all’aria e di continuare l’offensiva. Era stata allestita una linea di comunicazi­one non cifrata con il Comando supremo austriaco a Baden, vicino a Vienna, ma la monarchia asburgica era in dissoluzio­ne e non dette risposte, lasciando liberi i delegati di decidere. Weber von Webenau firmò alle 15.20. La delegazion­e austriaca ripartì il 4 novembre mattina. Ufficialme­nte sconfitta.

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