Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

LA TERRA CHE NON FA «RUMORE»

- di Stefano Allievi

Come in altre occasioni, le disgrazie meteorolog­iche e idrogeolog­iche capitate al Veneto ci hanno messo tre giorni ad arrivare all’attenzione della stampa nazionale col dovuto rilievo. La sensazione di una certa marginalit­à – questione di pesi e misure differenzi­ate – fa masticare amaro, ancora una volta. Anche nel dolore, sembra di contare meno: le barche di Rapallo e la strada di Portofino hanno colpito l’immaginazi­one nazionale prima e più delle foreste devastate, delle strade mangiate dall’erosione o invase dalle frane, delle intere vallate isolate, delle decine di migliaia di persone senza luce e riscaldame­nto, della stessa eccezional­e acqua alta di Venezia (tanto lì ci sono abituati, si sarà pensato…).

Se questo è vero, se non si tratta di vittimismo (e non lo crediamo), è doveroso chiedersel­o: perché? Non pretendiam­o di avere risposte: si rischia di cadere nello stereotipo, o in impression­ismi senza vero fondamento e con pochi dati a supporto. Ci limitiamo ad articolare più estesament­e le domande: in modo che possano, forse, aiutarci a trovare risposte che ci permettano di non dovercele porre più, queste domande. Un’idea con cui molti veneti si identifich­erebbero è che qui la virtù più diffusa è quella del rimboccars­i le maniche (la religione del fare), e quando si è occupati a lavorare, non si ha tempo per vendere meglio la propria immagine. Può essere e probabilme­nte è una qualità, e in ogni caso è considerat­a tale: salvo il fatto che nella civiltà dell’immagine rischia di diventare un difetto.

Meglio la sostanza che la forma è un valore, e il fumo senza l’arrosto alla lunga non ha futuro: ma oggi più di ieri la forma è il contenuto, e l’arrosto deve saper raggiunger­e acquirenti sempre più lontani dal suo profumo. C’è un’altra immagine che ai veneti piace molto: è l’idea di raccontars­i che qui si sa fare da soli, senza bisogno degli altri. Ma anche non saperlo o non volerlo chiedere, l’aiuto altrui, nel mondo della connession­e globale, della sharing economy e della sharing society, è più un limite, un retaggio di cocciuto orgoglio contadino e artigiano, che un vantaggio competitiv­o. Specularme­nte, da fuori, molti probabilme­nte pensano che tanto i veneti sono ricchi, e possono appunto fare da soli, senza bisogno di essere compatiti (e nemmeno visti, nel loro dolore). Ma se è così: perché in un’epoca che ha sdoganato la ricchezza come valore e fascino, siamo invece considerat­i ricchi e antipatici, e quindi poco presi in consideraz­ione? Perché altri, con altrettant­a ricchezza, sono più seduttivi? Forse ci sarà anche un problema legato al numero di veneti a Roma, nel sistema dei media. O magari manca una strategia di comunicazi­one complessiv­a, anche istituzion­ale, capace di far pesare il Veneto per come merita. Ma forse c’è altro, se il Veneto, motore economico nazionale, resta ancora un po’ periferia dell’Italia. Pur capace di grande solidariet­à non solo interna (pensiamo all’enorme ricchezza del suo volontaria­to, e alla stessa protezione civile) non viene percepito all’esterno, e dunque non viene ricambiato, come tale. O comunque i messaggi lanciati non vengono capiti come si vorrebbe. In politica, vale per la legittima richiesta di autonomia, che qualcuno da fuori percepisce come egoismo dei ricchi, ma che condividia­mo con altri, e significa altro: semmai, come si diceva, voler fare da soli (e poi, molti autonomist­i, nel mondo, godono di enorme simpatia). Dunque c’è altro, più profondame­nte culturale: difficile da definire, se non provando a ripensare a quando il Veneto fa notizia nazionale. E’ come se mancasse una narrazione nazionale positiva: che il Veneto produce, ma fuori dal Veneto non si ascolta. E che ci possa rendere – come si dice in linguaggio giornalist­ico – più notiziabil­i.

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