Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Isnenghi: «Centenario del conflitto, è riesploso il ricordo collettivo»
Celebrazioni e (ri)letture: «Non butto la vittoria di Vittorio Veneto»
«Non butto via la vittoria di Vittorio Veneto»: Mario Isnenghi da cinquant’anni mette a fuoco l’immane incendio della Prima Guerra mondiale, se ci pensiamo l’unica che è entrata nel lessico e nella storia con l’aggettivo Grande. E di fronte a quella nostra sentita voglia e coscienza di pace, che ci fa mettere l’accento sugli aspetti più deteriori contestabili orripilanti di un conflitto – i milioni di morti, il dispregio della vita umana, la violenza sugli inermi e le cose – non può smettere i panni dello storico obiettivo. Come dire: riconoscere una vittoria non significa automaticamente celebrare la guerra. «Vittorio Veneto è un fatto: di più, un fatto di portata storica perché è stato insieme politico e militare, in quella che è stata definita la guerra totale: che coinvolgeva cioè tutto e tutti. Non solo eserciti ed istituzioni, ma l’economia, la produzione, l’assistenza, l’alimentazione, fino alle famiglie e alle terre lontane. Vincere questa guerra è stato più che sconfiggere militarmente il nemico Austria, da subito e forse da prima è stato un fatto nazionale, collettivo, diventato parte della coscienza di un popolo».
In questi giorni si sono consumati i cent’anni dalla fine di quel conflitto, e per tre anni e mezzo un florilegio di ricordi, rievocazioni, programmi televisivi, libri e convegni ha riportato generali e fanti, cannonate e massacri, canzoni spavalde e dolenti nel nostro quotidiano domestico. In realtà, per lo meno nel Nord Est, teatro delle operazioni e terra madre contesa, il ricordo familiare e anche pubblico s’è mantenuto vivo attraverso le generazioni. I ricordi del nonno sono passati ai nipoti, che oggi in età matura li passeranno ai figli, anche grazie al revival del centenario. E poi, più concretamente, basta fare una passeggiata in montagna – quasi tutte le nostre montagne, dall’Adamello al Carso – per incrociare trincee, gallerie, strade, manufatti e ancora schegge, pallottole, quando non siano ossa. E’ una striscia che inevitabilmente arriva fino a noi, con la forza delle cose. Lungo il Piave ci sono orti ancor oggi recintati dal filo spinato recuperato a fine guerra dai reticolati. Il latte veneto che beviamo arriva dalle mucche che pascolano l’erba nelle buche provocate dalle migliaia e migliaia di colpi d’artiglieria. La Grande Guerra ha intriso le nostre radici recenti.
E allora allo storico si chiede: com’è andato questo nuovo racconto offerto agli italiani cent’anni dopo? Dice Isnenghi: «L’anniversario ha goduto – per contrasto - della rendita di posizione delle celebrazioni per l’Unità d’Italia nel ‘61 e dell’annessione del Veneto nel ‘66, meno coinvolgenti, specie il 2016. Di sicuro la Grande Guerra rifulge nella memoria se non nella storia. Memoria e storia sono due cose diverse: la prima è istintiva, naturale, emozionale; la seconda è studio. La memoria è riesplosa: sono saltate fuori le foto dei nonni, le lettere, i diari, una ricchezza singola e collettiva insieme, totalmente apolitica. La memoria, la letteratura narrativa e l’educazione civica hanno quasi insidiato la storiografia, l’hanno pressata. E così però l’hanno anche animata e motivata».
Oggi conosciamo meglio e capiamo di più. Nel frattempo è cambiata anche la lente del tempo e grazie agli storici parecchie vulgate succedutesi nel “secolo breve” si sono modificate. Strasepolta la retorica del ventennio (il regime volle riabilitare il generale Cadorna) c’è una rilettura anche delle interpretazioni ideologiche nate alla fine degli anni ‘60. Un esempio è a portata di mano: proprio Mario Isnenghi pubblicava nel ‘67 (aveva trent’anni) «I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra». Si sondava, in quelle pagine, l’idea dello “sciopero militare” non tanto come causa della sconfitta, ma come empito rivoltoso nato da truppe vessate, demotivate e alla fine ribelli. Cinquant’anni di studi fanno cambiare l’incidenza della luce: l’anelito rivoluzionario, sentimentalmente simile a quello dell’esercito russo, tanto caro ai sessantottini del tempo, semplicemente non ci fu. Rivedendo in gran parte i materiali e la storia di quel libro, assieme allo storico militare Paolo Pozzato, a maggio scorso Isnenghi ha pubblicato sempre con Marsilio «Oltre Caporetto», testo freschissimo e congeniale a questi giorni di sventolìo tricolore. Allora: non ci fu “sciopero militare”, casomai segnali di rivolta, e fu in ogni caso una «rivolta abortita», scrive Isnenghi. Nel senso che sì, ci furono soldati che si arresero, ma in gran parte furono quelli delle retrovie. Che sì, la II Armata venne disintegrata, ma le altre riuscirono a ripiegare e la III del duca d’Aosta venne definita «invitta». Che sì, la sconfitta fu in diretta e devastante e generò non una rivoluzione ma quei «fantasmi» di cui gli alti comandi dovettero tener conto. Caporetto, come Vittorio Veneto, fu un fatto, i fantasmi no. Da allora in poi cambiò il comando e cambiò la guerra. Insomma, la disfatta e la vittoria sono due facce della stessa medaglia, coniata da quegli stessi uomini (meno Cadorna) che in pochi mesi umiliarono l’esercito austro-ungarico. E non solo guerra sul campo, fino alla battaglia finale: ma diversa politica dei vertici militari e diversa politica tout court. Ci ha fatto bene Caporetto? Di sicuro la guerra non è finita lì. E’ finita a Vittorio Veneto.