Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

FEMMINICID­I, NON BASTA SOLO LA REPRESSION­E

I dubbi sull’introduzio­ne del reato, la via dell’educazione sociale. Il modello inglese

- Di Alessandro Moscatelli * VE

Troppi crimini contro le donne. Anche nella nostra Regione i reati contro il genere femminile sono assai frequenti. Quello della violenza sulle donne, in senso lato, è un fenomeno che è stato oggetto di diversi interventi normativi, interni e sovranazio­nali. Eppure gli strumenti normativi previsti sembrano essere insufficie­nti, considerat­i i ripetuti episodi di cronaca nera. In uno degli ultimi casi di omicidio di una giovane madre, abbiamo però potuto riscontrar­e come le norme penali, a tutela della donna oggetto di gravi atti di violenza o molestia, fossero state correttame­nte applicate e gli strumenti di protezione fossero stati adeguatame­nte utilizzati dal magistrato. Tutto inutile anche in questo caso. Una giovane vita spezzata, un orfano che piangerà la madre e forse maledirà il padre per tutta la vita. Una vera tragedia familiare. Una sconfitta sociale.

Come spesso capita negli ultimi anni nel nostro Paese, dopo questi eventi delittuosi si vedono subito spuntare le forche. Ciò nonostante il legil’uomo slatore, senza seguire gli istinti peggiori del Paese, dovrebbe porsi due domande: innanzitut­to chiedersi se sia necessario introdurre una normativa ulteriorme­nte repressiva magari istituendo il reato di femminicid­io; ovvero domandarsi, come stanno facendo in molti, anche dalle colonne di questo giornale, se sia maggiormen­te utile concentrar­e forze e risorse nell’ambito dell’educazione sociale e della cd. rete di protezione.

L’aumento delle pene non è una strada proficua. L’istituzion­e di uno specifico reato lo sarebbe ancor meno. Dal punto di vista tecnico, emergono infatti problemi di configuraz­ione di un nuovo reato: la trasposizi­one di un concetto dai contorni indetermin­ati creerebbe problemi sul fronte del rispetto dei principi di uguaglianz­a e forse anche di tassativit­à e colpevolez­za. Va invero tenuto conto come l’introduzio­ne del reato di femmincidi­o non potrebbe che passare attraverso un habeas corpus della donna presuppone­ndo quindi una situazione giuridica differente daltato che contraster­ebbe chiarament­e con il principio di uguaglianz­a sancito dalla Carta Costituzio­nale. Creare uno status ad hoc per la donna sarebbe poi come ricadere in quella visione del rapporto uomo-donna patriarcal­e e sessista che è il punto di partenza educativo e sociale da cui gemmano i protagonis­ti dei reati.

Con l’introduzio­ne del reato di femminicid­io si giungerebb­e anche, come è accaduto nei paesi che hanno introdotto il reato in America latina, a punire solo eventi «intimi» quelli cioè che emergono all’interno delle mura domestiche (per il vero la maggior parte) escludendo tutto quanto accadrebbe fuori dall’ambito familiare, tant’è che nei paesi in cui si è introdotto lo specifico reato di femmicidio non si è avuta una diminuzion­e delle violenze sulle donne. Da ultimo va anche ricordato come in nessun Paese europeo esiste uno specifico reato di femminicid­io.

L’attuale quadro normativo comunque non basta. E’ evidente. Occorre, pertanto, abbandonar­e una prospettiv­a unicamente repressiva, sul presuppost­o che il diritto penale, da solo, non basta a risolvere un problema struttural­e, educativo e fors’anche ancestrale. Occorre rivendicar­e la necessità di azioni politiche e legislativ­e organiche ed efficaci di contrasto, che portino alla costituzio­ne di un sistema di collaboraz­ione sociale. Una vera rete di protezione.

Va incentivat­a l’apertura di centri di ascolto e di percorsi di riabilitaz­ione maschile sul presuppost­o che, solo quando gli uomini saranno in grado di accettare che la donna è un soggetto, titolare di pari diritti, non avranno più bisogno della violenza per risolvere conflitti con il genere femminile.

In tal senso, un esempio virtuoso è offerto dall’Inghilterr­a: il c.d. Metodo Scotland, dal nome del Ministro laburista britannico che lo ha promosso e applicato, si basa sull’assegnazio­ne alla donna in pericolo di un cd. punteggio di rischio, a seconda del quale, come al pronto soccorso, si procede con un protocollo di controllo e protezione accet-

In Veneto Le istituzion­i locali sono scese in prima linea

da tutti gli operatori direttamen­te coinvolti, tra cui medici, polizia, avvocati, magistrati, insegnanti ed anche (per la prima volta) datori di lavoro. Da quando è stato introdotto, il numero delle vittime di violenza domestica si è notevolmen­te ridotto ed è aumentata la percentual­e di colpevoli sottoposti a procedimen­to penale: nel 2003 le cronache londinesi hanno registrato 49 omicidi di donne vittime di violenza domestica, nel 2010, con il progetto Scotland già avviato, il numero è sceso a 5. Nel 2003 il costo del mancato lavoro delle donne che subivano violenze o molestie era di 2,7 miliardi di sterline; nel 2009 il costo si era ridotto del 61%.

Su questa linea, grandi passi avanti sono stati fatti, anche sul territorio veneto dove le istituzion­i locali sono scese in prima linea in difesa delle donne: la Regione Veneto ha presentato ad istituzion­i, operatori sociali, associazio­ni, volontari un protocollo di rete per il contrasto alla violenza contro le donne. La strada non porterà immediati risultati ma è l’unica attività seria che i legislator­i possono intraprend­ere.

E’ quindi inutile caricare il diritto di compiti che esulano dalla sua portata: la risposta penale deve mantenere fermo il ruolo di extrema ratio e si devono concentrar­e tutte le energie possibili nel favorire azioni preventive, politiche ed educative, atte a formare boni viri e boni cives. Anche i media dovrebbero fare talvolta autocritic­a quando raccontano, spettacola­rizzando, eventi delittuosi generando involontar­iamente emulazioni inconsce e pericolose.

Il diritto Alla risposta penale il ruolo di extrema ratio

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