Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Il ricettario di casa Svevo, le specialità di uno scrittore
Marzo Magno racconta le specialità dello scrittore triestino. Un modo per rivivere «il mondo di ieri»
L’epoca migliore di Trieste, quando la città era la terza dell’Impero Austro-Ungarico per popolazione dopo Vienna e Praga. Quando vi si stampavano cinque quotidiani in lingua italiana, due in tedesco, uno in sloveno, e vi uscivano periodici in croato e in greco. Quando, come ha ricordato Jan Morris nel capolavoro «Trieste o del nessun luogo», una grande burocrazia imperiale, solerte, coscienziosa e inappuntabile, regolava i rapporti tra i cittadini e favoriva l’ordinata prosperità dei commerci. Era in quella Trieste a cavallo tra Otto e Novecento che un signore di origini ebraiche, cultura mista, vocazione letteraria e appartenenza al solido mondo borghese di nome Aaron Hector Schmitz, in arte Italo Svevo, si nutriva non solo filosoficamente dello splendido melting pot adriatico. Già, perché se dell’autore de La Coscienza di Zeno si è già detto così tanto, è vero che a sfogliare le ricette dei piatti che venivano serviti alla sua tavola nel pieno della Belle Époque si capiscono più cose dell’identità di uno scrittore che sintetizzò la propria doppia identità nordica e mediterranea fin nel nome d’arte che si scelse.
È tutto ben presente in Il ricettario di Casa Svevo, da poco uscito per La nave di Teseo: libretto pieno di memorie e profumi di cucina a cura di Alessandro Marzo Magno, autore prolifico e curioso, questa volta impegnato nel recupero filologico del «quaderno di nonna Dora». Una «piccola reliquia del mondo di ieri», dice Marzo Magno citando Zweig:
Alessandro Marzo Magno Dora era una delle sorelle di Livia Veneziani, quindi cognata dello scrittore. Ettore - così aveva cominciato a italianizzare il suo nome Aaron Hector nella Trieste irredentista - di Livia era sposo e cugino: discendevano entrambi da Giuseppe Moravia, giunto a Trieste da San Daniele del Friuli e figlio a sua volta di un macellaio kosher. Ma anche se era nato nel 1861 nel centralissimo viale XX Settembre, quello che i triestini chiamano semplicemente «il Viale», Italo Svevo passò gli anni probabilmente migliori della sua esistenza in un luogo relativamente periferico della città, quella Villa Veneziani che stava nell’allora Passaggio Sant’Andrea, sotto Servola, a ridosso dell’impresa della famiglia. «Era una specie di mondo a sé stante, se possibile autosufficiente: si nasceva, si veniva battezzati, ci si sposava; ginecologi, levatrici e parroci venivano e ne trasformavano i locali in sale parto o chiesette». E soprattutto, «a Pasqua non mancava mai la pinza, una sorta di focaccia dolce, ottima nel caffellatte, meravigliosa in accoppiata con prosciutto cotto in crosta di pane e irrorato da una generosa grattugiata di cren (rafano)». Marzo Magno investiga usi e costumi alimentari dei Veneziani, facendo utile contrappunto con le sue note storiche alle ricette, vere e indiscusse protagoniste del libro: dal käsekuchen, ovvero la torta di ricotta con uva passa e buccia di limone grattugiata alle frittole, alle tagliatelle che arriveranno con l’annessione all’Italia, a dolci che sono la quintessenza della Mitteleuropa triestina come il presnitz, il kugelhupf, la crema fritta.
«Italo Svevo doveva essere una persona piacevole e con ogni probabilità non disprezzava il buon cibo - osserva Marzo Magno -. Solo che non ne parla mai e uno dei rarissimi riferimenti alle sue passioni alimentari si ritrova nel breve passaggio di un’intervista che la figlia Letizia ha rilasciato nel 1978». Apprendiamo così che era goloso e che «la torta di ricotta e la crema fritta gli piacevano molto». La vita di Villa Veneziani ruotava intorno all’azienda di famiglia, brillantemente condotta da Gioachino, inventore tra l’altro della vernice antivegetativa sottomarina per le carene delle navi. «Ettore Schmitz era figlio di questo mondo ai nostri occhi piuttosto strano, noi che siamo abituati a pensare a confini tagliati con l’accetta, o di là o di qua, e a identità definite. Invece in quella Trieste di definito non c’era quasi nulla. Lo vediamo anche nelle ricette di nonna Dora, con tanti riferimenti alla cucina austriaca». Chicca finale: uno scritto del 1946 di Gillo Dorfles, che ricorda i suoi pomeriggi con Italo Svevo, ovviamente a Villa Veneziani, in una stanza piena di fumo dove ai ragazzini si servivano vino, slivovitz e sciroppi. Solo alcolici, insomma, di caffè o tè neanche a parlarne.
La rassegna L’incontro nel Vicentino anticipa la stagione di una Montagna di Libri