Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Il figlio di Marina Monti, rapita dalla banda: dovrebbe stare in carcere, non in tivù
TREVISO «C’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui viene raccontata in televisione la storia di Felice Maniero. Un ragazzino, vedendo sorridere chi lo intervista, può pensare che si tratti di un personaggio, un uomo che ha avuto una vita interessante e spericolata. Invece è un criminale e dovrebbe essere in carcere: ha rapito mia madre davanti a me e mio fratello, avevo solo 4 anni». Barnaba Monti porta ancora nella mente le immagini sfuocate di quel giorno del 1982, quando un gruppo di malviventi face irruzione in casa: armi, passamontagna, paura.
Era la Mala del Brenta: volevano colpire una delle famiglie simbolo dell’imprenditoria trevigiana, fondatori di una florida industria tessile. Un rapimento. La madre, Marina Rosso, ancora ne parla perché quei trentadue giorni di prigionia rimangono sulla pelle come una ferita. «Ha tenuto duro per noi – racconta il figlio - si è offerta ai rapitori perché non facessero del male a mio nonno, era lui il loro obiettivo ma aveva problemi di salute e lei ha detto: prendete me. Ci ha portati a letto, prima che la caricassero nel bagagliaio di un’auto, ed è rimasta prigioniera per oltre un mese».
Lo stabilimento Monti ancora oggi è a Maserada sul Piave, qualche chilometro fuori da Treviso. Il padre di Barnaba, Gianni, aveva raccolto l’eredità del nonno alla guida dell’azienda. «Quando i rapitori sono entrati, mia madre per tranquillizzarci ci ha detto che quegli uomini arrivavano da una festa in maschera, per questo avevano il viso coperto. C’era anche Maniero, ricordo il codino che usciva dal passamontagna. Sono quasi sicuro che fosse lui, non toccava niente, dava solo gli ordini. E ai suoi ha detto: nessuno le torca un capello o se la vedrà con me».
Sono passati 36 anni ma non basta il tempo a cancellare: «Chi conosce quel pezzo di storia italiana e veneta, dalle parole di Maniero può cogliere aspetti interessanti – dice Barnaba -. Ma chi non ha gli strumenti adeguati, senza un preambolo in cui si racconta veramente cosa sia successo, lo sente solo parlare di come combattere lo spaccio di stupefacenti. Non è un eroe».
Nella lunga intervista, Maniero ha parlato di un momento drammatico della sua carriera criminale, nel 1990: l’attentato a un convoglio postale per una rapina da sei miliardi di lire. Invece l’esplosione del tritolo uccise la giovane Cristina Pavesi, che viaggiava su un treno in direzione opposta. «È l’unico atto di cui mi pento veramente, chiedo umilmente scusa alla famiglia e alla zia di Cristina». La zia Michela, però, non gli crede: «Non mi convince per il modo in cui ha ricordato il fatto, ma soprattutto perché non ha mai dato un segno reale di pentimento. Non hai mai chiesto di incontrarmi e porgermi di persona le dovute scuse, come ha fatto invece Paolo Pattarello, coinvolto nella rapina». Per la morte di sua nipote, i giudici decisero di non imputare alcun capo d’accusa ai membri della Mala del Brenta, poiché l’atto non era premeditato. «È davvero assurdo – chiude Pavesi - per ragioni di stato a Maniero, ora collaboratore di giustizia, sono state condonate diverse cose brutte che ha fatto. Cristina continua a rimanere una vittima senza giustizia».