Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
STIPENDI, IL PATTO CHE SERVE
Non basta discutere sulle retribuzioni dei giovani lavoratori, più alte in Lombardia, Trentino-Alto Adige ed Emilia-Romagna rispetto al Veneto. C’è da chiedersi perché gli stipendi siano in queste tre regioni di punta più basse di quelle ottenute lavorando all’estero. In superficie, la causa visibile è la tassazione che grava sul costo del lavoro (il cosiddetto «cuneo fiscale»). In profondità, il fattore tanto invisibile quanto rilevante è la debolezza del nostro sistema imprenditoriale rispetto alla potenza della tecnologia che costringe a cambiare il modo di pensare. All’origine del male salariale c’è l’ansia del datore di lavoro di pretendere delle risposte invece di cercare un metodo per trovarle. Immaginare è un metodo di conoscenza dietro il quale si nascondono la ricerca, l’indagine e l’investigazione. Tre parole che da noi non risuonano alte; tre parole che pronunciano i giovani talenti in fuga, amanti del pensiero che escono all’aperto per esplorare e sperimentare. Quei giovani prediligono gli esperimenti mentali, associano liberamente i dati dell’esperienza, compiono salti logici, violano la conoscenza accreditata generando nuove idee che superano quelle consolidatesi nel tempo. Intanto, trovandosi sul fronte dell’intelligenza artificiale, le imprese esigono abilità e competenze tecniche.
Tuttavia, se messo a servizio delle macchine che apprendono, il lavoratore subirà una seconda retrocessione. Il lavoro si ridurrà e si smorzerà il suo reddito, poiché sempre più soldi saranno destinati alle nuove tecnologie. Verrà così sacrificato l’investimento nella formazione e riqualificazione delle risorse umane. La rivoluzione digitale mostra, però, un altro scenario, quello in cui non dalla separazione ma dall’intreccio dei compiti tra la mente umana e l’intelligenza artificiale si otterranno prestazioni superiori acquisendo nuova conoscenza. Ciò potrà comportare il bilanciamento degli investimenti tra le spese in tecnologia e gli esborsi destinati al capitale umano, sempre che si avverino due condizioni. Da un lato, una politica fiscale che favorisca l’ammortamento degli investimenti nei lavoratori. Dall’altra, una politica aziendale che metta il capitale intellettuale al centro della sua azione. Sono passati poco meno di trent’anni da quando la compagnia svedese di assicurazioni Skandia concepì un rapporto sul capitale intellettuale da affiancare alla relazione annuale di bilancio, con la motivazione che quel capitale è importante almeno quanto il capitale finanziario. Da allora ad oggi sono ancora poche le imprese che misurano il loro capitale intellettuale composto dal personale impiegato, dal portafoglio clienti, dalla reputazione, dalla proprietà intellettuale, dalle relazioni sociali e dalla cultura imprenditoriale. Tutti questi sono valori «morbidi», le radici dell’albero aziendale da cui pendono i frutti. Con le radici del capitale intellettuale visibili perché rivolte verso l’alto, l’albero rivoltato è segno di un cambiamento che assicurerà l’alleanza tra mente umana e intelligenza artificiale. Non dovremmo più preoccuparci delle macchine che pensando al posto nostro gettano il lavoro nello stagno. Non dovremmo più dire, come sosteneva Burrhus Frederic Skinner, psicologo del comportamento, che «il vero problema non è se le macchine sappiano pensare, ma se gli uomini lo facciano». Avremmo acceso quella luce che è la fantasia, una luce che emana quando la conoscenza ricevuta e accumulata nel corso delle passate rivoluzioni industriali è sostituita da una nuova conoscenza che rassoda il terreno intorno alle radici del capitale intellettuale.