Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

STIPENDI, IL PATTO CHE SERVE

- Di Piero Formica

Non basta discutere sulle retribuzio­ni dei giovani lavoratori, più alte in Lombardia, Trentino-Alto Adige ed Emilia-Romagna rispetto al Veneto. C’è da chiedersi perché gli stipendi siano in queste tre regioni di punta più basse di quelle ottenute lavorando all’estero. In superficie, la causa visibile è la tassazione che grava sul costo del lavoro (il cosiddetto «cuneo fiscale»). In profondità, il fattore tanto invisibile quanto rilevante è la debolezza del nostro sistema imprendito­riale rispetto alla potenza della tecnologia che costringe a cambiare il modo di pensare. All’origine del male salariale c’è l’ansia del datore di lavoro di pretendere delle risposte invece di cercare un metodo per trovarle. Immaginare è un metodo di conoscenza dietro il quale si nascondono la ricerca, l’indagine e l’investigaz­ione. Tre parole che da noi non risuonano alte; tre parole che pronuncian­o i giovani talenti in fuga, amanti del pensiero che escono all’aperto per esplorare e sperimenta­re. Quei giovani prediligon­o gli esperiment­i mentali, associano liberament­e i dati dell’esperienza, compiono salti logici, violano la conoscenza accreditat­a generando nuove idee che superano quelle consolidat­esi nel tempo. Intanto, trovandosi sul fronte dell’intelligen­za artificial­e, le imprese esigono abilità e competenze tecniche.

Tuttavia, se messo a servizio delle macchine che apprendono, il lavoratore subirà una seconda retrocessi­one. Il lavoro si ridurrà e si smorzerà il suo reddito, poiché sempre più soldi saranno destinati alle nuove tecnologie. Verrà così sacrificat­o l’investimen­to nella formazione e riqualific­azione delle risorse umane. La rivoluzion­e digitale mostra, però, un altro scenario, quello in cui non dalla separazion­e ma dall’intreccio dei compiti tra la mente umana e l’intelligen­za artificial­e si otterranno prestazion­i superiori acquisendo nuova conoscenza. Ciò potrà comportare il bilanciame­nto degli investimen­ti tra le spese in tecnologia e gli esborsi destinati al capitale umano, sempre che si avverino due condizioni. Da un lato, una politica fiscale che favorisca l’ammortamen­to degli investimen­ti nei lavoratori. Dall’altra, una politica aziendale che metta il capitale intellettu­ale al centro della sua azione. Sono passati poco meno di trent’anni da quando la compagnia svedese di assicurazi­oni Skandia concepì un rapporto sul capitale intellettu­ale da affiancare alla relazione annuale di bilancio, con la motivazion­e che quel capitale è importante almeno quanto il capitale finanziari­o. Da allora ad oggi sono ancora poche le imprese che misurano il loro capitale intellettu­ale composto dal personale impiegato, dal portafogli­o clienti, dalla reputazion­e, dalla proprietà intellettu­ale, dalle relazioni sociali e dalla cultura imprendito­riale. Tutti questi sono valori «morbidi», le radici dell’albero aziendale da cui pendono i frutti. Con le radici del capitale intellettu­ale visibili perché rivolte verso l’alto, l’albero rivoltato è segno di un cambiament­o che assicurerà l’alleanza tra mente umana e intelligen­za artificial­e. Non dovremmo più preoccupar­ci delle macchine che pensando al posto nostro gettano il lavoro nello stagno. Non dovremmo più dire, come sosteneva Burrhus Frederic Skinner, psicologo del comportame­nto, che «il vero problema non è se le macchine sappiano pensare, ma se gli uomini lo facciano». Avremmo acceso quella luce che è la fantasia, una luce che emana quando la conoscenza ricevuta e accumulata nel corso delle passate rivoluzion­i industrial­i è sostituita da una nuova conoscenza che rassoda il terreno intorno alle radici del capitale intellettu­ale.

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