Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Droga e cous-cous Gli anni del ghetto, quando erano i boss i soli a comandare
Era una città nella città, un po’ suburbio nigeriano, un po’ souk maghrebino, con i suoi ritmi, il suo trambusto, le sue leggi. Comandava lei: la cocaina. Al calar della sera la vedevi circolare liberamente nelle mani di ragazzotti africani dall’aria di sfida. Di giorno la nascondevano in qualsiasi buco esistesse fra quei palazzi, nei pozzetti dell’acqua piovana, dietro le placche degli interruttori, nei vani dei contatori.
Il bronx del Nordest aveva i tratti di un’enclave africana quasi totalmente fuorilegge cresciuta nei primi anni Duemila a muso duro fra un blitz e l’altro della polizia. Sei stabili, quasi trecento miniappartamenti, circa quattrocento (ma a volte molti di più) abitanti, in prevalenza nigeriani e tunisini, dove nel 2006 l’eccezione erano i cinque superstiti italiani, sospiranti e silenziosi. Per arginare i traffici, lo Stato ci aveva costruito una barriera che avevano chiamato «muro» ma che sembrava una diga in mare aperto, considerata l’imponenza dei flussi. Era la Padova del democratico Zanonato, il sindaco che oscillava fra la politica del rigore da mostrare ai cittadini e la tolleranza imposta dal suo dna partitico. Ed era la Padova dei no global che qui trovavano la loro vigna ideale per urlare al ghetto e allo scandalo. Perché in via Anelli si muoveva un’umanità fatta di tante anime. C’erano sì la droga e i clandestini ma c’era anche l’Africa dei migranti, di chi soffre e fugge. Per capire e vedere, ci andai a vivere per due giorni.
Di sera spuntavano i banchetti di generi alimentari, messi in piedi con i carrelli del vicino centro Giotto. Le donne vendevano banane, arance, pane in baguette, yogurt. Poco più là i tunisini cucinavano la carne macinata e in una sorta di ristorantino all’aperto dove arrivavano anche da fuori per mangiare un piatto caldo. Cous-cous, kebab e musiche africane sparate a tutto volume, mentre la piazzetta veniva invasa dal fumo e anche da una certa allegria. Una babele di odori e culture.
Nell’atrio di uno dei tre palazzi, un ragazzo nero con indosso un camice bianco sforbiciava sulla testa di un maghrebino. Era il barbiere del «villaggio», che veniva pagato con il cous-cous. Da una parte tagliava i capelli agli abitanti e dall’altra vendeva biscotti Bucaneve e insetticidi. Indispensabile, l’insetticida. Uno dei cinque italiani, uno sfortunato ingegnere che viveva in trenta metri quadri pagando pure il canone Rai senza vedere la tv per via dei saccheggi, oltre a cospargere la casa di Baygon, aveva pensato di mettere un biadesivo all’ingresso per catturare gli scarafaggi. Questo era naturalmente solo l’aspetto più comico di una battaglia quotidiana nella quale lui resisteva eroicamente nella sua piccola trincea.
Viveva in un palazzo di porte sfondate, di case occupate, di allacciamenti dell’acqua rotti, di muri tutti scrostati in una sorta di grande mosaico di piccoli buchi. Con l’intonaco i suoi vicini tagliavano infatti le dosi.
Per questa sua natura illegale, la cittadella di via Anelli molto ambita dagli spacciatori. I conti tornavano a molti, anche ad alcuni proprietari non residenti che arrivavano a chiedere fino a seimila euro al mese per un monolocale. Era l’altra faccia del bronx, dove per anni si è giocata un partita a guardia e ladri che sembrava quasi una messinscena.
Ogni settimana la polizia arrivava, frugava, sequestrava. E gli africani urlavano e scappavano e poi tornavano e la cittadella della droga tornava a vivere.
Erano gli anni caldi di via Anelli. Anni di fumo, di fughe e di soldi sporchi.
"Gil affitti Per un monolocale pagavano 6mila euro
"Gli italiani Erano solo cinque i residenti italiani