Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Droga e cous-cous Gli anni del ghetto, quando erano i boss i soli a comandare

- di Andrea Pasqualett­o

Era una città nella città, un po’ suburbio nigeriano, un po’ souk maghrebino, con i suoi ritmi, il suo trambusto, le sue leggi. Comandava lei: la cocaina. Al calar della sera la vedevi circolare liberament­e nelle mani di ragazzotti africani dall’aria di sfida. Di giorno la nascondeva­no in qualsiasi buco esistesse fra quei palazzi, nei pozzetti dell’acqua piovana, dietro le placche degli interrutto­ri, nei vani dei contatori.

Il bronx del Nordest aveva i tratti di un’enclave africana quasi totalmente fuorilegge cresciuta nei primi anni Duemila a muso duro fra un blitz e l’altro della polizia. Sei stabili, quasi trecento miniappart­amenti, circa quattrocen­to (ma a volte molti di più) abitanti, in prevalenza nigeriani e tunisini, dove nel 2006 l’eccezione erano i cinque superstiti italiani, sospiranti e silenziosi. Per arginare i traffici, lo Stato ci aveva costruito una barriera che avevano chiamato «muro» ma che sembrava una diga in mare aperto, considerat­a l’imponenza dei flussi. Era la Padova del democratic­o Zanonato, il sindaco che oscillava fra la politica del rigore da mostrare ai cittadini e la tolleranza imposta dal suo dna partitico. Ed era la Padova dei no global che qui trovavano la loro vigna ideale per urlare al ghetto e allo scandalo. Perché in via Anelli si muoveva un’umanità fatta di tante anime. C’erano sì la droga e i clandestin­i ma c’era anche l’Africa dei migranti, di chi soffre e fugge. Per capire e vedere, ci andai a vivere per due giorni.

Di sera spuntavano i banchetti di generi alimentari, messi in piedi con i carrelli del vicino centro Giotto. Le donne vendevano banane, arance, pane in baguette, yogurt. Poco più là i tunisini cucinavano la carne macinata e in una sorta di ristoranti­no all’aperto dove arrivavano anche da fuori per mangiare un piatto caldo. Cous-cous, kebab e musiche africane sparate a tutto volume, mentre la piazzetta veniva invasa dal fumo e anche da una certa allegria. Una babele di odori e culture.

Nell’atrio di uno dei tre palazzi, un ragazzo nero con indosso un camice bianco sforbiciav­a sulla testa di un maghrebino. Era il barbiere del «villaggio», che veniva pagato con il cous-cous. Da una parte tagliava i capelli agli abitanti e dall’altra vendeva biscotti Bucaneve e insetticid­i. Indispensa­bile, l’insetticid­a. Uno dei cinque italiani, uno sfortunato ingegnere che viveva in trenta metri quadri pagando pure il canone Rai senza vedere la tv per via dei saccheggi, oltre a cospargere la casa di Baygon, aveva pensato di mettere un biadesivo all’ingresso per catturare gli scarafaggi. Questo era naturalmen­te solo l’aspetto più comico di una battaglia quotidiana nella quale lui resisteva eroicament­e nella sua piccola trincea.

Viveva in un palazzo di porte sfondate, di case occupate, di allacciame­nti dell’acqua rotti, di muri tutti scrostati in una sorta di grande mosaico di piccoli buchi. Con l’intonaco i suoi vicini tagliavano infatti le dosi.

Per questa sua natura illegale, la cittadella di via Anelli molto ambita dagli spacciator­i. I conti tornavano a molti, anche ad alcuni proprietar­i non residenti che arrivavano a chiedere fino a seimila euro al mese per un monolocale. Era l’altra faccia del bronx, dove per anni si è giocata un partita a guardia e ladri che sembrava quasi una messinscen­a.

Ogni settimana la polizia arrivava, frugava, sequestrav­a. E gli africani urlavano e scappavano e poi tornavano e la cittadella della droga tornava a vivere.

Erano gli anni caldi di via Anelli. Anni di fumo, di fughe e di soldi sporchi.

"Gil affitti Per un monolocale pagavano 6mila euro

"Gli italiani Erano solo cinque i residenti italiani

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