Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Il notaio: «Quella carta non deve uscire»

La parabola dei profession­isti onesti venduti ai mafiosi per riciclare soldi E pure il notaio diventa aggressivo: «Questo documento non deve uscire»

- Di Roberta Polese

Il mafioso

Io sono calabrese, non vado per le vie legali, noi siamo fatti così, siamo tutti una famiglia

La confession­e

«Ho emesso fatture false perché dovevo restituire un prestito di 300mila euro»

Un progetto imprendito­riale che naufraga, un prestito che diventa un cappio al collo, tassi da usurai, estorsioni, e «la famiglia che non ammette un no come risposta». Così l’imprendito­re vittima diventa a sua volta carnefice e trascina a fondo tutti, anche i suoi ex collaborat­ori, «venduti» al mafioso come pegno. Gente che ha sempre lavorato onestament­e e che si ritrova a fare i conti con frasi come queste: «Stai attento che se non fai come ti dico, le cose vanno a finire male»; o «Noi siamo quelli che ti tagliamo le gambe e ti mandiamo in paese».

Se l’operazione della Dda di Venezia dello scorso marzo aveva rivelato schiere di imprendito­ri sdraiati al cospetto dei mafiosi per riciclare denaro, la nuova indagine racconta di come le fatture false fossero il modo per trovare i soldi per pagare tassi d’usura fino al 20% su prestiti fatti in un passato così remoto da far quasi perdere le proprie tracce. E’ così che sono caduti nella tela del ragno Leonardo Lovo, imprendito­re edile di Campagna Lupia, già finito in carcere a marzo per associazio­ne mafiosa finalizzat­a alle false fatture e protagonis­ta di una delle tre estorsioni contestate al mafioso Antonio Genesio Mangone, sodale dei fratelli Sergio e Michele Bolognino, vertici del clan pluriconda­nnati per ‘ndrangheta.

E’ questa spasmodica ricerca di denaro che spinge Adriano Biasion, impresario di Campagna Lupia, già arrestato lo scorso marzo per associazio­ne mafiosa e di nuovo indagato per estorsione, a diventare il braccio «armato» di Mangone. E’ Biasion, che deve anche lui soldi ai mafiosi, a fare da trait d’union tra l’ignaro Borella e Mangone, e a «reclutare» un terzo impresario, Arcana Adrian, giovane albanese di Rubano (Padova).

Il primo a raccontare tutto è Lovo. Dopo l’arresto dello scorso marzo chiede un incontro con il pm e vuota il sacco: è vero che ha emesso fatture false per i mafiosi, lo faceva perché doveva restituire un prestito da 300mila euro ad un calabrese che gli aveva prestato quel denaro per avviare un’impresa, poi fallita, al Sud. Mangone è sopraggiun­to dopo, come il «riscossore». «Questa gente è in galera, devi occuparti dei debiti che hai lasciato giù», gli diceva Mangone riferendos­i al prestito concesso da una famiglia calabrese e che ora lui doveva recuperare.

Lovo aveva dovuto consegnare soldi, gioielli, ma le intimidazi­oni, come le auto che gli tagliavano sempre la strada, arrivavano puntuali a fargli capire che il cappio era sempre lì. Borella invece, indagato a marzo, è andato direttamen­te dalla Guardia di Finanza a denunciare il notaio padovano Gianluigi Maculan, che si è prestato alle intimidazi­oni di Mangone, costringen­dolo a firmare un atto falso. Borella era stato indotto da Biasion a vendere un negozio a Sambruson di Dolo a una delle società di Mangone. Ma non aveva visto un soldo e davanti al notaio, che conosceva bene la situazione, ha firmato un atto falso, una dichiarazi­one «tombale» in cui diceva che i soldi li aveva presi. Ed è lo stesso Maculan ad aggredirlo, urlando che doveva firmare quell’atto: «Questo documento deve rimanere nel cassetto, non lo dovete mai tirare fuori!».

E poi c’è l’albanese, amico di Biasion e da lui indotto a lavorare per una ditta intestata a Mangone. Quando comincia a pretendere i pagamenti arrivano le minacce. «Io sono calabrese, io non vado per le vie legali, noi siamo fatti così, siamo tutti una famiglia — dice Mangone — tu sei fortunato, io sono venuto a mangiare a casa tua, sei un amico». E così l’uomo fa intendere, in tipico stile mafioso, che sa dove «l’amico» abita e sa chi sono i suoi familiari.

Il tutto avviene anche con la presenza di due guardaspal­le di Mangone, il vicentino Giulio Cuman e Antonio Gnesotto, di Treviso entrambi indagati. Sono loro due bloccare l’albanese e a intimidirl­o con spinte e pizzicotti per «metterlo in uno stato di assoluta soggezione», scrive il gip.

Ma questi non sono gli unici casi. Altri quattordic­i imprendito­ri sono stati vittime di minacce ed estorsioni. Sono tre veneziani, un vicentino, sette padovani, due trevigiani e un rodigino. La speranza è che ora anche loro inizino a parlare.

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La vittima Mario Borella 70 anni

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