Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Morte improvvisa, negli sportivi rischio tre volte superiore
PADOVA All’ospedale di Padova, nel Centro di Patologia vascolare, da 37 anni sono conservati i cuori di 850 giovani stroncati da morte improvvisa. Vittime di un fenomeno che uccide un ragazzo su 100mila all’anno e che infierisce sugli sportivi, per i quali il rischio aumenta di tre volte. Significa che ogni anno tre atleti fra i 20 e i 35 anni su 100mila possono morire improvvisamente. «E tanti casi, nonostante i progressi compiuti dalla scienza rispetto agli anni ‘80, rimangono purtroppo senza un perché», dice la professoressa Cristina Basso, direttore del Centro di Patologia vascolare. E’ stata lei, eseguendo l’autopsia su Piermario Morosini, il calciatore del Livorno morto il 14 aprile 2013 durante una partita di serie B a Pescara, a scoprire una nuova variante della cardiomiopatia aritmogena.
La malattia responsabile del 30% dei decessi negli atleti per trent’anni era stata individuata solo nel ventricolo destro, ma su Morosini fu riscontrata nel sinistro. Una forma più pericolosa, perché non rilevabile né dall’elettrocardiogramma né dall’ecografia, ma solo dalla risonanza magnetica. «Di questa patologia, che può essere ereditaria, abbiamo individuato nove geni — rivela la ricercatrice — e tenendo sotto controllo i familiari dei soggetti colpiti (400-500 l’anno, ndr), che hanno fra il 30% e il 40% di possibilità di soffrirne a loro volta, siamo riusciti a salvare molte vite. Oggi possiamo diagnosticarla precocemente e gestirla con i farmaci, ma non è l’unica causa di morte improvvisa. Nei ragazzini tra 10 e 14 anni può essere indotta da una malformazione congenita, magari a un’arteria o a una coronaria, che non scatena sintomi e si rivela solo in caso di malore».
Ma allora come evitare nuove tragedie? «Di fronte a palpitazioni, svenimenti o dolore toracico bisogna farsi controllare immediatamente — consiglia Basso — soprattutto se questi sintomi compaiono sotto sforzo. E poi, se si pratica sport, meglio scegliere palestra, piscina o campi da gioco cardioprotetti, cioè dotati di defibrillatori e di persone in grado di usarli e praticare la rianimazione cardio-polmonare».
Ogni volta che capita il dramma, ci si chiede perché l’Usl di riferimento abbia concesso l’idoneità all’atleta. «La visita medico-sportiva di routine non rileva patologie così complesse — avverte la specialista —. Bisognerebbe fare la Tac a tutti, ma non è possibile. L’altro problema è ciò che gli atleti e i loro genitori dicono al medico sportivo al momento del rilascio dell’idoneità: quanto sono attendibili le notizie cliniche riportate? Spesso, per non essere fermati dall’attività, gli atleti assicurano che va tutto bene, sono giovani, si sentono in forze, non vogliono rinunciare allo sport. E anche la famiglia tace eventuali disturbi, sottovalutandoli». Coloro che si salvano dall’attacco improvviso possono condurre una vita normale, grazie all’installazione di un defibrillatore sottocute e di una serie di terapie, purché abbandonino l’agonismo.
Un’équipe multidisciplinare composta da cardiologi, anatomopatologi, genetisti, biologi molecolari e radiologi, coordinata da Cristina Basso, sta approfondendo gli studi in materia. «Bisognerebbe istituire un gruppo di ricerca in ogni ospedale hub del Veneto — esorta la scienziata — per imparare a riconoscere i segni precoci, ridurre ulteriormente la mortalità e mettere a punto nuove terapie».