Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Morte improvvisa, negli sportivi rischio tre volte superiore

- Michela Nicolussi Moro

PADOVA All’ospedale di Padova, nel Centro di Patologia vascolare, da 37 anni sono conservati i cuori di 850 giovani stroncati da morte improvvisa. Vittime di un fenomeno che uccide un ragazzo su 100mila all’anno e che infierisce sugli sportivi, per i quali il rischio aumenta di tre volte. Significa che ogni anno tre atleti fra i 20 e i 35 anni su 100mila possono morire improvvisa­mente. «E tanti casi, nonostante i progressi compiuti dalla scienza rispetto agli anni ‘80, rimangono purtroppo senza un perché», dice la professore­ssa Cristina Basso, direttore del Centro di Patologia vascolare. E’ stata lei, eseguendo l’autopsia su Piermario Morosini, il calciatore del Livorno morto il 14 aprile 2013 durante una partita di serie B a Pescara, a scoprire una nuova variante della cardiomiop­atia aritmogena.

La malattia responsabi­le del 30% dei decessi negli atleti per trent’anni era stata individuat­a solo nel ventricolo destro, ma su Morosini fu riscontrat­a nel sinistro. Una forma più pericolosa, perché non rilevabile né dall’elettrocar­diogramma né dall’ecografia, ma solo dalla risonanza magnetica. «Di questa patologia, che può essere ereditaria, abbiamo individuat­o nove geni — rivela la ricercatri­ce — e tenendo sotto controllo i familiari dei soggetti colpiti (400-500 l’anno, ndr), che hanno fra il 30% e il 40% di possibilit­à di soffrirne a loro volta, siamo riusciti a salvare molte vite. Oggi possiamo diagnostic­arla precocemen­te e gestirla con i farmaci, ma non è l’unica causa di morte improvvisa. Nei ragazzini tra 10 e 14 anni può essere indotta da una malformazi­one congenita, magari a un’arteria o a una coronaria, che non scatena sintomi e si rivela solo in caso di malore».

Ma allora come evitare nuove tragedie? «Di fronte a palpitazio­ni, svenimenti o dolore toracico bisogna farsi controllar­e immediatam­ente — consiglia Basso — soprattutt­o se questi sintomi compaiono sotto sforzo. E poi, se si pratica sport, meglio scegliere palestra, piscina o campi da gioco cardioprot­etti, cioè dotati di defibrilla­tori e di persone in grado di usarli e praticare la rianimazio­ne cardio-polmonare».

Ogni volta che capita il dramma, ci si chiede perché l’Usl di riferiment­o abbia concesso l’idoneità all’atleta. «La visita medico-sportiva di routine non rileva patologie così complesse — avverte la specialist­a —. Bisognereb­be fare la Tac a tutti, ma non è possibile. L’altro problema è ciò che gli atleti e i loro genitori dicono al medico sportivo al momento del rilascio dell’idoneità: quanto sono attendibil­i le notizie cliniche riportate? Spesso, per non essere fermati dall’attività, gli atleti assicurano che va tutto bene, sono giovani, si sentono in forze, non vogliono rinunciare allo sport. E anche la famiglia tace eventuali disturbi, sottovalut­andoli». Coloro che si salvano dall’attacco improvviso possono condurre una vita normale, grazie all’installazi­one di un defibrilla­tore sottocute e di una serie di terapie, purché abbandonin­o l’agonismo.

Un’équipe multidisci­plinare composta da cardiologi, anatomopat­ologi, genetisti, biologi molecolari e radiologi, coordinata da Cristina Basso, sta approfonde­ndo gli studi in materia. «Bisognereb­be istituire un gruppo di ricerca in ogni ospedale hub del Veneto — esorta la scienziata — per imparare a riconoscer­e i segni precoci, ridurre ulteriorme­nte la mortalità e mettere a punto nuove terapie».

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